Spiacenti, ma i conti non tornano più. No, non è una contestazione dei soliti italiani a fronte dei rincari che obbligano a rivedere la tabella di marcia di alcuni progetti finanziati dai fondi Pnrr. La revisione del budget riguarda l’investimento che Intel, il colosso Usa dei chips, ha annunciato per rilanciare l’alleanza tra l’industria americana e le imprese europee attive nel ramo dei semiconduttori. Un accordo strategico, dunque, con l’obiettivo esplicito di schierare l’Occidente contro la Cina.



Per questo la lettera in arrivo dalla California ha lasciato di stucco gli interlocutori tedeschi, già certi che la prima tappa della discesa in Europa di Intel fosse Magdeburgo, nel cuore dell’ex Germania Est, a un passo dal polo dell’auto elettrica che corre dalla periferia di Berlino alla Sassonia. I chips sfornati dallo stabilimento (data d’avvio dei lavori per l’impianto già fissati alla prossima primavera) erano destinati ad alimentare le elettriche di Audi, Volkswagen, Porsche e della stessa Tesla, attiva nella regione con un impianto nuovo di zecca.



Ma, a sorpresa, l’investimento è stato rinviato in attesa di una revisione finanziaria del progetto. Il motivo? Nel corso degli ultimi mesi, scrive il gruppo Usa, molte cose sono cambiate: il costo dell’energia è esploso in Europa, oggi assai meno conveniente rispetto al Nord America. Nel frattempo la mancanza di chips, che ha segnato le sorti dell’industria nel 2022, sta rientrando. Anzi, il rischio è di andare incontro a una crisi di sovrapproduzione, come testimonia il taglio dell’attività negli impianti Samsung. Insomma, i 6,8 miliardi di euro stanziati da Berlino a favore dell’investimento non bastavano più. Per arrivare a coprire il 50% dei costi (20 miliardi contro i 17 iniziali) ce ne vogliono altri 3.



Niente di drammatico, per carità. O sufficiente a mandare in tilt un piano da 80 miliardi complessivi, elaborato con il sostegno di Parigi (il centro di ricerche sarà insediato in Francia) e dell’Italia ove dovrebbe sorgere l’impianto di packaging (investimento di 4,8 miliari, al 40% finanziato dallo Stato), conteso tra Piemonte e Veneto. Ma la mezza ritirata Usa è stata giudicata, a Berlino come a Bruxelles, la punta dell’iceberg dell’atteggiamento aggressivo dell’Amministrazione Biden che, da un lato, ha destinato ingenti fondi (53 miliardi di dollari) per attrarre investimenti in Nord America dei leader del settore di Taiwan e della Corea del Sud, dall’altro ha approvato l’Ira (Inflation Reduction Act) che stanzia 369 miliardi di dollari per l’energia “verde”. Ottimo proposito salvo che più della metà servirà a finanziare l’auto elettrica (7.500 dollari di contributi su ogni acquisto) purché i modelli siano costruiti negli States.

Da mesi l’Europa cerca un po’ con le buone, un po’ con le minacce di ricorrere al tribunale della Wto, di disinnescare il conflitto con il partner Usa, senz’altro rafforzato dal contributo determinante nel conflitto ucraino. Finora con scarsi risultati. Di qui la tentazione di reagire a Washington con un Buy European Act che, in risposta all’atteggiamento Usa, aiuti l’industria europea con un piano mirato di sussidi. Un progetto che, non a caso, ha preso velocità dopo i ripensamenti Usa sul fronte dei chips.

Finora i propositi europei sono stati giudicati con una certa sufficienza per i limiti finanziari dell’azione Ue. Il Fondo sovrano europeo, annunciato da Ursula Von Der Leyen, “è senz’altro una bella idea – ha commentato un commissario -, ma non abbiamo i soldi”. Finora infatti si ò andati avanti con iniziative frammentarie, frutto dei singoli Governi (almeno di quelli con una certa disponibilità finanziaria) e spesso osteggiate dai Paesi del Nord Europa, più propensi a difendere i diritti dei consumatori (comprando merci e servizi al minor costo) piuttosto che la creazione di campioni industriali.

Ma adesso si cambia: un documento della socialdemocrazia tedesca, il partito del Cancelliere Olaf Scholz, si è pronunciato a favore del Clean Tech Act, ovvero uno strumento che punta a ridurre lo svantaggio competitivo dell’Europa rispetto all’America, offrendo alle aziende europee dei sussidi da utilizzare per finanziare la riconversione “verde” dei loro processi produttivi, così da mettersi nelle condizioni di reggere la concorrenza con le imprese rivali statunitensi.

La “bomba” è stata un parte disinnescata dall’ufficio del Cancelliere che, per motivi di politica interna, ha voluto precisare che si tratta di un’iniziativa di partito, non di una scelta del Governo. Ma il valore della novità resta: o si sviluppa una risposta industriale comune che coinvolga l’intera Europa, oppure si rischia di aumentare lo squilibrio tra i partner forti e quelli deboli. Vale per i chips così come per l’energia. Ma non solo per l’industria. Non a caso Bloomberg ha collegato la notizia sui progressi del Fondo europeo alla ripresa dell’euro e al rimbalzo in contemporanea degli acquisti sul debito pubblico italiano: se il Bel Paese saprà fare la sua parte, anche pagando i necessari prezzi politici e finanziari (vedi le accise), i mercati lo sosterranno nella convinzione che l’Italia può essere determinante per la ripresa dell’Europa già sottoposta al doppio stress della pandemia e della guerra.

Il rialzo del mercato azionario e il recupero di valore dei Btp (oggi di nuovo un investimento interessante per i risparmiatori reduci da un anno nero) sia di buon auspicio: il futuro sarà impegnativo, ma non per forza nero.

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