Tra gli shock multipli che sono in fase di gestione/mitigazione nell’Ue e in Italia c’è ne è uno latente, ma emergente, che ancora non trova sufficiente prevenzione: gli effetti del cambiamento climatico sulla produttività generale, e in particolare alimentare, dei territori. Siccità prolungate interrotte da precipitazioni estreme distruttive, regimi termici che tendono a modificare la continuità di colture tradizionali, rischi che la tropicalizzazione porti nuovi bioagenti e fenomeni epidemiologici verso i quali non siamo adattati, ecc. A tali pericoli si aggiunge l’impreparazione delle strutture e infrastrutture antropiche a reggere fenomeni climatici estremi.



Da un lato, tali rischi spingono l’ecopolitica di decarbonizzazione finalizzata a contenere il riscaldamento del pianeta via effetto serra entro 1,5 gradi verso fine secolo. Dall’altro, il cambiamento climatico ha impatti già visibili da tempo e crescenti nei prossimi decenni, molto prima di fine secolo. 



Per inciso, chi scrive lavorò nel lontano 1990 nel gruppo di ricerca con la missione di fornire al Segretario generale dell’Onu i riferimenti per una politica globale di mitigazione delle catastrofi ambientali (Un-Idndr): negli scenari già apparivano gli impatti del cambiamento climatico. Allo scrivente fu affidato il compito di elaborare una metodologia di prevenzione (modello economico), ma i sondaggi con i governi mostrarono una realtà deludente: i politici confessavano che senza evidenze chiare per tutti, una prevenzione che richiedeva allocazioni importanti di risorse e cambiamenti del sistema non avrebbe trovato il consenso. 



Ma ora l’evidenza c’è. Ed è altrettanto evidente che alla decarbonizzazione vadano aggiunte politiche di ecoadattamento, con priorità di messa in sicurezza dell’agricoltura. E tale ecoadattamento, necessariamente, implica la costruzione di sistemi artificiali che permettano l’indipendenza dei cicli vitali dalle variazioni ambientali: sistemi agricoli non vulnerabili a climi estremi, habitat con microclima controllabile, forse ingegneria genetica per rafforzare le piante, inserimento nei progetti di nuove infrastrutture di capacità ecoadattive, strutturazione di cicli chiusi delle acque e di riserve d’emergenza, predisposizione di dissalatori nelle zone a rischio di desertificazione, ecc. 

Un lavoro enorme, ma se iniziato subito, pezzo dopo pezzo in base alle priorità, potrà essere fatto nei decenni e generare un ciclo di capitale espansivo superiore al costo degli investimenti. 

In conclusione: serve un passo verso l’ecologia artificiale. 

www.carlopelanda.com 

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