Il mio gruppo internazionale di ricerca ha difficoltà nel trovare dati climatici affidabili (cicli e cause), a parte l’aumento delle temperature medie sul pianeta che è dato certo (Nasa), su cui costruire scenari economici per capire soluzioni di ecoadattamento. Una parte delle scienze fisiche dedicate imputa il riscaldamento globale generato dall’effetto serra causato dalla, semplificando, carbonizzazione dovuta all’attività antropica. Per loro la soluzione è decarbonizzare, punto e basta. Ma tanti altri ricercatori delle medesime discipline offrono o spiegazioni diverse o criticano la soluzione, lasciando gli economisti non ideologizzati e fedeli per quanto possibile al metodo scientifico – e che non sono fisici o simili – bloccati. Inoltre, i miei ricercatori – specializzati in geopolitica economica – annotano che il ritmo della decarbonizzazione a livello planetario è lentissimo, per non dire inesistente, perché una decarbonizzazione accelerata è in contrasto con i requisiti di sostenibilità economica, tema caldo nell’Ue ora. Pertanto, al momento, la probabilità che il mutamento climatico non sarà contrastato in tempo utile (cioè prima di provocare gravi impatti) è molto elevata.
Per tale motivo il mio gruppo di ricerca sta aumentando l’attenzione sull’ecoadattamento, cioè alla serie di contromisure che permetterebbero la viabilità dell’ambiente da parte delle attività umane pur l’ambiente stesso variando, con massima attenzione alla sostenibilità economica. Le soluzioni ecoadattive ricercate sono sia difensive (microclimi artificiali, desalinizzatori per cicli idrici potabili abbondanti, prevenzione epidemiologica, ecc.) sia trasformative (terraformazioni localizzate contro eventi estremi, per esempio alluvioni). E viene escluso l’abbandono delle popolazioni di zone impraticabili perché ciò avrebbe alta probabilità di catastrofe globale.
Ai credenti della salvazione via decarbonizzazione va segnalata una riflessione realistica: l’attenzione sull’ecoadattamento non è in contrasto con la decarbonizzazione, ma si basa sull’evidenza che questa tende a essere molto lenta, e di fatto solo europea: ciò pone il problema di cosa dobbiamo fare nei prossimi decenni per evitare guai che sono sempre più evidenti nelle cronache. La risposta è ecoadattarci con tecnologia e conoscenza.
Conoscenza di cosa? Di come è cambiato il clima nel passato in un pianeta che ha subito continui mutamenti climatici. Per quale scopo specifico? Una politica di ecoadattamento ha costi perché implica trasformazioni, cioè investimenti. Non può essere fatta tutta e subito per insufficienza dei soldi e per lo sviluppo di tecnologie adeguate nonché di (infra)strutture. Quindi serve individuare una matrice di interventi graduali basati su priorità.
Per questo tipo di ricerca come gruppo abbiamo deciso di andarci a trovare da soli i dati. Tra le tante fonti abbiamo trovato utile come input per lo scenario la ricerca della British Antarctic Survey che ha rilevato un’accelerazione dello scioglimento dei ghiacci nell’interfaccia terra-ghiaccio in Antardide: ci ha dato un parametro preliminare utile per il calcolo dell’aumento del livello del mare. La stessa istituzione ci ha avvertito di un progetto che ci ha fatto saltare sulle sedie: un team interdisciplinare di ricercatori è partito il 30 luglio per la Groenlandia nord-orientale – seconda fase del progetto Wandel Dal – per studiare sia gli antichi insediamenti umani nei periodi 4.500-3.850 (popolazioni che venivano dal Canada?) e 2.900-2.250 anni fa sia, soprattutto, il mutamento climatico.
Salto sulla sedia? In questi periodi quella parte di Groenlandia orientale-settentrionale era abitabile, densa di mammiferi, per esempio il bue muschiato, volatili, ecc. Segno che c’era un ecosistema verde con molta differenziazione di speci. Dopo fu abbandonata per una glaciazione interveniente. Il salto nostro è stato dovuto alla velocità del cambiamento climatico. L’inserimento di questo dato (molto) preliminare nel simulatore – oltre alle centinaia già esistenti, per esempio i tempi di desertificazione dell’Egitto, dello Yemen, ricavabili da reperti archeologici, ecc. – ha fatto riflettere su una possibile variabilità del clima che suggerisce di adattare i territori antropizzati sia al caldo, sia al freddo. La particolare attenzione alla Groenlandia orientale è che non è troppo lontana dalla Corrente del Golfo che ha mantenuto (finora) abbastanza temperate le temperature dell’Europa settentrionale. Ma lo scioglimento dei ghiacci tende a modificarla e ciò potrebbe bloccare tale corrente, innescando un raffreddamento europeo nell’ambito di un riscaldamento globale. Oppure no? Immaginate le contromisure necessarie nel primo caso per mantenere viabile il sistema economico. Aspettiamo con massima curiosità i risultati del progetto groenlandese detto combinati con quelli di scioglimento dell’Artide.
Il punto: abbiamo le tecnologie per difendere da variazioni calde o fredde il nostro sistema? Se ci mettessimo a studiarle ora, molto probabilmente tra decenni, quando serviranno, certamente saranno costruibili. Pertanto la soluzione unica della decarbonizzazione appare un fattore di vulnerabilità: bisogna prevedere anche la necessità di ecoadattamento, cioè di un ecopragmatismo. Uno potrebbe chiedere quale sia la relazione tra ciclo naturale del mutamento climatico ed effetto antropico. Domanda corretta: una relazione probabilmente c’è, ma per capirlo numericamente dovremmo avere più dati sul cambiamento climatico, chiamiamolo, naturale. In tal senso il progetto interdisciplinare in Groenlandia ha un rilievo particolare.
www.carlopelanda.com
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