Chi scrive ha annotato la riluttanza delle società di riassicurazione a coprire le assicurazioni private contro i disastri ambientali, queste sollecitate dai Governi per ridurre il costo dell’intervento pubblico per il ripristino di sistemi impattati. Tale riluttanza è dovuta a motivi razionali: il recente aumento dei costi di rimborso per l’incremento della frequenza di eventi estremi, ma, soprattutto, la difficoltà di calcolare il rischio (probabilità di un evento in relazione al danno stimato) per area territoriale. Il cambiamento climatico tende provocare alluvioni (e siccità) di estrema intensità con frequenze che tendono a eccedere la loro computabilità e localizzazione. Qual è una possibile soluzione economicamente e finanziariamente sostenibile?



Il tema è rimasto finora sotto soglia di attenzione per l’illusione che la decarbonizzazione potesse ridurre l’intensità dei fenomeni meteorologici distruttivi oppure per la sensazione che il mutamento climatico avesse ritmi e impatti più lenti e meno violenti o estesi. Dati recenti, invece, fanno ipotizzare che l’aumento delle temperature a livello planetario potrebbe essere non contenuto entro il limite di 1,5 gradi nel lungo periodo. Il motivo è, semplificando, che l’azione decarbonizzante accelerata (che riduce i gas serra) trova ostacoli di sostenibilità economica.



La disarmonia e non sincronia tra ecopolitica di transizione ed economia produttiva è evidente nell’Ue che si è posta obiettivi decarbonizzanti anticipati, anche per l’esigenza di ridurre la dipendenza da combustibili fossili di cui non è produttrice. Il resto del mondo ha obiettivi di riduzione dei gas serra molto più labili. Pertanto affidarsi alla sola decarbonizzazione per la sicurezza territoriale, pur azione da perseguire, non appare un fattore sufficiente di riduzione del rischio. Ciò apre la strada all’ecoadattamento, cioè ridurre la vulnerabilità dei territori a eventi estremi, come azione integrativa, probabilmente la più urgente.



Cosa significa ecoadattamento? Sul piano micro, ogni unità territoriale dovrebbe attivare contromisure che riducano l’impatto di un evento estremo in modo tale da permettere alle assicurazioni private di poter calcolare il rischio valutando la riduzione di vulnerabilità. Sul piano macro, considerando la tendenza all’aumento dei livelli del mare che potrebbe mettere a rischio il 70% della popolazione mondiale che vive in zone costiere a fine secolo, sarà necessaria una “terraformazione” con scopo di sicurezza se il fenomeno venisse confermato. Si tratta quindi di studiare una collaborazione tra capitale pubblico che investe sulla – o facilita la – riduzione della vulnerabilità degli insediamenti e le assicurazioni private che grazie alla minore vulnerabilità possono tornare a calcolare il rischio, con premi abbordabili, e riassicurarsi.

L’Italia, tra i territori con più alto rischio territoriale multiplo del mondo, appare laboratorio per creare con innovazioni tale soluzione.

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