Tra le chicche cinefile più golose proposte al Torino Film Festival, conclusosi sabato scorso, c’erano l’ultimo film di Clint Eastwood, Cry macho, ma soprattutto il documentario Clint Eastwood: l’eredità cinematografica (titolo originale: Clint Eastwood: a cinematic legacy). Per ricordare i primi 50 anni di carriera del suo regista più fedele, più prolifico e più di successo (i film diretti da Eastwood hanno incassato, finora, 1,8 miliardi di dollari), la Warner ha dedicato questo omaggio a Clint Eastwood, affidandone la regia al regista e storico del cinema Gary Leva. Il film è, in realtà, una docuserie di 9 episodi, ognuno della durata inferiore ai 20 minuti, che a Torino è stato presentato come un unico documentario di 135 minuti, mentre la versione già disponibile sulle piattaforme è di 146 minuti.
I titoli dei nove capitoli della serie forniscono un’idea della poliedricità e complessità del novantunenne regista: 1) La visione di un regista; 2) Il cuore di un eroe; 3) Testimone della storia; 4) Reinventare il western; 5) Un regista di attori; 6) Senza esclusione di colpi; 7) Combattere per la giustizia; 8) Coraggio sotto tiro; 9) Tripla sfida.
Gary Leva racconta l’incredibile carriera di attore, regista e produttore (questa è la tripla sfida dell’ultimo capitolo) attraverso le scene dei film commentate dallo stesso regista e da testimoni come Martin Scorsese, Steven Spielberg, Gene Hackman, Meryl Streep, Forest Whitaker, Morgan Freeman e tanti altri. Alla fine della visione del film si ha una profonda consapevolezza: che non basterebbero 9 capitoli da un’ora ciascuno per raccontare, in modo esaustivo, la straordinaria eredità cinematografica di questo novantunenne che continua a sfornare un film all’anno e che non accenna a fermarsi.
Da quando nel 1971 ha diretto Brivido nella notte, proprio nello stesso anno in cui interpreta per la prima volta Dirty Harry, l’ispettore Callaghan, diretto da Don Siegel, quest’attore di poche parole, capace – secondo Sergio Leone – solo di due espressioni (con il cappello e senza il cappello), continua a stupirci e grazie a questo documentario ci ricorda come è diventato uno dei più grandi registi di Hollywood.
Spielberg nel primo capitolo invidia la capacità di Clint di rispettare il piano di lavorazione e di non sforare il preventivo del film. Basta pensare che per girare I ponti di Madison county Eastwood ha impiegato 10 giorni in meno di quelli previsti realizzando un film che ha incassato 10 volte il suo costo, per capire perché è così amato dalla Warner.
La caratteristica principale di Eastwood che emerge dalle numerose testimonianze di star hollywoodiane non è, però, la sua efficienza ed economicità come regista, ma è quella di essere un cantastorie.
Clint Eastwood è il cantastorie che sceglie sempre storie originali e border-line, che sceglie interpreti perfetti e che dirige e, spessissimo, produce le sue storie. Questo cantastorie è, inoltre, un regista classico alla Michael Curtiz, alla Frank Capra, al quale non interessano i virtuosismi della macchina da presa o del montaggio, ma raccontare la storia in modo chiaro, ricorrendo a un montaggio praticamente invisibile, e far emergere l’umanità dei personaggi. Mentre scorrono davanti agli occhi le scene dei film di Eastwood ci si rende conto di quanto le storie che sceglie di portare sullo schermo siano sempre originali e controcorrente.
Anche gli eroi americani al centro dei suoi film sono eroi contestati come Richard Newell o Sully. Fa veramente impressione ricordare che Eastwood era considerato un fascista da molti di quelli che oggi lo esaltano. Esiste un regista, a parte Eastwood, che ha raccontato lo stesso episodio, la battaglia di Iwo Jima, dal punto di vista dei vinti e dei vincitori in due film distinti, come Letters from Iwo Jima e Flags of our fathers? E in quest’ultimo film Eastwood non è un banale John Wayne, ma smonta, senza paura, la retorica patriottica di una foto passata alla storia e smaschera la manipolazione della storia stessa.
E quale cantastorie avrebbe scelto per raccontare un eroe difficile come Mandela e dimostrarne la grandezza di leader di ricorrere all’episodio della squadra bianca del Sudafrica che vince il campionato del mondo di rugby?
Ma non basta. Martin Scorsese ci ricorda che l’allievo di Sergio Leone è stato in grado di reinventare il western, sorprendendo ancora una volta tutti, con Gli spietati.
In un capitolo del documentario, Senza esclusione di colpi, viene poi descritta l’originalità di molti dei suoi personaggi i quali, benché duri o sentimentali, hanno spesso un lato umoristico, con battute passate alla storia, rafforzate dall’impassibilità alla Buster Keaton con le quali vengono pronunciate. Ma Eastwood non ha solo vinto 5 Oscar, ma è il regista con il quale un attore ha più probabilità di vincere un oscar come dimostra il capitolo Regista di attori. Anche in questo l’Eastwood touch non è quello che plasma o trasforma l’attore, ma è la bacchetta magica che individua l’interprete che in quella parte, in quella storia e sotto la sua direzione, potrà vincere una statuetta.
Questo piacevolissimo documentario mostra a chi non lo sapeva e ricorda a chi se ne era dimenticato che Clint Eastwood in questi cinquanta anni ha sviluppato un suo personale umanesimo e attraverso i suoi film ci ha mostrato la sua visione del mondo, sulla società che opprime l’individuo, sul ruolo massificante dei media e della collettività, che non vuole sapere la verità, quella delle tragiche storie personali dei suoi eroi, dentro i quali scorre il sangue di vite dimenticate, di drammi vissuti direttamente ma in solitudine, ma solo avere dei simboli a cui affidarsi, a cui credere. Si tratta di una corposa eredità di cui per fortuna grazie al cinema potremo godere per sempre.
Questo imperdibile documentario è già disponibile per la visione sulle piattaforme: Apple Tv app, Amazon Prime Video, Youtube, Google Play, Tim Vision, Chili, Rakuten TV, Sky Primafila e Mediaset Infinity.
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