Ci sono fatti in cui siamo costretti a fare i conti con noi stessi, fatti in cui l’esperienza di questo tempo si rende trasparente e improvvisamente accessibile: l’aggressione selvaggia e violenta a un clochard di 42 anni picchiato presso la stazione Villafranca di Verona, aggressione cui è seguito il tentativo di bruciare vivo l’uomo – adesso ricoverato presso il reparto grandi ustioni dell’ospedale di Borgo Trento -, ripropone in maniera nuda e drammatica l’inquietante interrogativo circa la rabbia nella nostra società, circa una mentalità che appare facile stigmatizzare come fascista, ma che in realtà – forse più autenticamente – altro non è che l’ultimo livello di solitudine cui è giunto l’uomo moderno, una solitudine risentita e piena di dolore.
Già, perché fino a che le analisi dei tanti intellettuali di qualunque fede politica non varcheranno il Rubicone del dolore, rompendo il tabù di chi vorrebbe la rabbia solo un prodotto sociale e non l’esito di un dramma del cuore, non potremmo comprendere fino in fondo quanto accade intorno a noi e ogni proposta, anche la più nobile, conterrà sempre una tara ideologica difficile da ignorare.
La violenza nasce dalla rabbia, la rabbia nasce dall’ingiustizia, l’ingiustizia nasce dal dolore. Ed è il dolore dei carnefici che, in questi strani anni di inizio millennio, più sfida e interpella le coscienze perché è il loro dolore che ultimamente genera orrore. L’orrore di una vita dileggiata, l’orrore di un accanimento senza precedenti, l’orrore di un cattivismo che sta diventando egemonico nella mentalità e nel sentire comune. È l’orrore, e il dolore, del sentirsi soli, abbandonati. Messi ai margini della promessa di benessere dell’economia capitalista, una promessa calpestata dalla globalizzazione, dalle migrazioni, dai processi di automazione, una promessa da cui sempre più milioni di cittadini si sentono esclusi e in cui sguazza il pregiudizio e l’ignoranza.
Un’ignoranza che è figlia dell’incomunicabilità, dell’incapacità di ascoltarsi, di farsi cambiare dalle parole dell’altro. Quante parole oggi si dicono? Quante ne potremmo dire agli sciacalli violenti di Verona? Quante li cambierebbero? La parola ha perso forza, è diventata banale, superflua, irrisoria: essa non ha più nessun legame con l’esperienza, con la storia, col passato.
Solitudine, incomunicabilità, rottura col passato sono solo tre conseguenze di chi riduce o nega il proprio bisogno di bene, di chi lo affoga nei propri pensieri o lo sostituisce con la cultura del sospetto e del pettegolezzo, che tutto ha invaso e tutto ha pervertito.
E allora, dinnanzi a tutto questo, è come necessario un miracolo, qualcosa che ridesti la ferita dei carnefici e – al contempo – lenisca lo strazio delle vittime. Vuoi vedere che alla fine, in quest’epoca in cui tutti ci vedono e si vedono, la rabbia dell’uomo ha solo bisogno di qualcuno che la guardi? Il potere di uno sguardo, la forza di una parola, la novità di un perdono.
I barbari che uccidono e sadicamente infieriscono non si battono con la morte, neppure col carcere a vita: il cattivo che abita dentro di noi si batte solo con la potenza di un’Assoluzione. Ma chi potrà mai assolvere un uomo dalle sue colpe? Chi potrà mai rifar ricominciare la vita e la storia? Di chi ha dunque bisogno davvero questa povera epoca? Ai posteri l’ardua sentenza. A noi, invece, l’onere di dare dignità e umana giustizia a tutte le vittime. Di dare un volto e un nome a quel povero clochard. Colpevole di aver risvegliato con la propria povertà gli istinti più bui della storia. Tutto il male del mondo.