Due recenti sentenze – la n. 26/2019 della Corte d’Appello di Torino e la n. 4243/2019 del Tribunale di Roma – offrono l’occasione per formulare alcune considerazioni sullo stato del cantiere “collaborazioni coordinate e continuative”, avviato nel 1973 mediante la modifica dell’art. 409 c.p.c. e non ancora concluso. All’inizio degli anni ’70, infatti, il Legislatore (l. 533/1973), nell’ambito della riforma del processo previdenziale e del lavoro, aveva incluso tra le materie oggetto del c.d. Rito Lavoro anche le controversie riguardanti i rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. Gradualmente, poi, tali rapporti – ribattezzati da subito “lavoro parasubordinato”- hanno ricevuto, in modo frammentato, tutele ulteriori rispetto a quella meramente processuale di cui alla citata l. 533/1973, come ad esempio quella previdenziale (l. 335/1995) e quella assicurativa ai fini antinfortunistici (l. 38/2000).
Sin da subito si è inoltre posto il problema della natura giuridica di tali collaborazioni, le quali, secondo parte della dottrina, dovevano essere ricomprese nell’alveo dei rapporti di lavoro subordinato, mentre secondo un’altra opzione interpretativa si trattava di rapporti di lavoro autonomo; vi era inoltre chi (e si trattava, almeno in alcuni periodi, della maggioranza) sosteneva già che le co.co.co. fossero una terza fattispecie contrattuale, collocata tra il lavoro subordinato e quello autonomo (c.d. teoria del tertium genus).
Tale dibattito, in realtà mai sopito, è stato tuttavia risolto, sul piano operativo, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “quello parasubordinato non è un tertium genus, bensì un rapporto di lavoro autonomo con alcune modalità di svolgimento proprie del rapporto di lavoro subordinato” (Cass. 18757/2005). In tale contesto, si è innestata la Riforma Biagi, la quale, lungi dall’aver abrogato le collaborazioni autonome, le ha dotate di una disciplina organica, che, con l’eccezione di alcune specifiche aree di esclusione (professionisti iscritti ad albi professionali, pensionati di vecchiaia, ecc.), richiedeva, ai fini dell’autonomia del rapporto, che il contratto individuasse lo specifico progetto o programma di lavoro alla cui esecuzione il lavoratore si obbligava.
Tale complesso impianto normativo, come noto, è stato abrogato dal Jobs Act (d.lgs. 81/2015), che – nonostante l’intenzione espressa dall’allora Governo Renzi di abrogare le collaborazioni coordinate e continuative – ha confermato l’esistenza di tali rapporti, dotandole tuttavia di una diversa disciplina. Ai sensi del suddetto Decreto, infatti, a partire dal 2016 “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Sull’interpretazione di tale disposizione si è già detto molto. Ciò che, almeno all’apparenza, sembra pacifico è che il Legislatore abbia introdotto, a latere dei tradizionali concetti di autonomia e di etero-direzione, la nozione di etero-organizzazione. Cosa, tuttavia, tale termine voglia significare, è tutt’altro che assodato.
Un contributo per la corretta interpretazione di tale norma – come giustamente osservato dal professor Pietro Ichino (Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, in Colloqui giuridici sul lavoro, ottobre 2015) – è certamente offerto dal dibattito parlamentare che ha portato alla definizione del testo normativo. E infatti non può non rilevarsi che la commissione Lavoro del Senato, con parere del 13 maggio 2015, abbia chiesto di integrare il criterio relativo alle modalità di esecuzione con la precisazione che devono essere organizzate unilateralmente dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro e che il mancato inserimento della parola “unilateralmente” sia stato motivato solo con il carattere pleonastico della stessa (in quanto, se è il committente a “organizzare” non è necessario precisare che tale potere è unilaterale). Muovendo da tale presupposto fattuale si giunge alla conclusione che l’elemento essenziale della c.d. etero-organizzazione è costituito dal potere attribuito al committente (contrattualmente o, comunque, nel concreto svolgersi del rapporto) di determinare, seppur non tutti gli aspetti della prestazione (poiché l’etero-organizzazione non equivale alla etero-direzione), almeno il luogo e il tempo dell’attività richiesta.
Si tratta di un’interpretazione ragionevole e coerente con il contenuto letterale della disposizione, che tuttavia ne depotenzia in maniera significativa la portata innovativa. Per questo motivo, la Corte d’Appello di Torino e il Tribunale di Roma, mediante le sentenze in esame, hanno deciso di discostarsene, riportando alla ribalta la teoria del tertium genus. Si afferma, infatti, che il Jobs Act avrebbe introdotto un nuovo modello, che si pone tra il rapporto di lavoro subordinato e il lavoro autonomo coordinato e continuativo, per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito dell’introduzione di nuove tecnologie nei processi produttivi, si stanno sviluppando.
Secondo i giudici, pertanto, può aversi etero-organizzazione anche qualora il committente dimostri l’autonomia del rapporto, e tuttavia sia ravvisabile un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nell’organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa finisca con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione) e si ponga come un qualcosa che vada oltre alla semplice coordinazione. In tale ipotesi, ed è qui la portata davvero innovativa delle decisioni, il collaboratore non avrebbe diritto alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato (in quanto è autonomo), ma solo all’applicazione della relativa disciplina contrattuale e di legge, affidando peraltro alla contrattazione nazionale la facoltà di prevedere diverse discipline di tutela.
Secondo questa nuova opzione interpretativa, pertanto, il Legislatore non ha voluto riqualificare la fattispecie, ma solo individuare la disciplina applicabile ai rapporti etero-organizzati, la quale – in assenza di specifici accordi nazionali (sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative) – coincide con quella del lavoro subordinato.
Paradigmatico, a tal riguardo, è il caso, esaminato dalla Corte torinese, dei riders impiegati nel settore del food delivery, i quali, si legge in sentenza, erano veri e propri lavoratori autonomi, in quanto il committente non aveva esercitato nei loro confronti alcun potere unilaterale. Erano i lavoratori, infatti, a dare la propria disponibilità a prestare servizio in determinate fasce orarie piuttosto che in altre, e peraltro potevano liberamente accettare o meno le “corse”. Certo, la società determinava dei turni teorici (slot), per i quali i riders potevano però candidarsi volontariamente. Tutto il flusso di informazioni tra il lavoratore e la società di food delivery, inoltre, avveniva mediante l’utilizzo di strumenti informatici predisposti da quest’ultima, che consentivano allo stesso tempo ai riders di esercitare autonomamente la propria attività e al committente di organizzare efficacemente il servizio.
In buona sostanza, pertanto, per i giudici piemontesi, tutta questa organizzazione non ledeva l’autonomia contrattuale dei collaboratori, ma la loro libertà di organizzare liberamente la propria attività, e giustificava pertanto l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.
Alle stesse conclusioni sarebbero, verosimilmente, giunti anche i giudici romani, se non fosse che in quel caso – relativo agli operatori out-bound di call center – le parti sociali si erano accordate, stabilendo una specifica regolamentazione delle collaborazioni autonome.
Allo stato, non è possibile prevedere se tale (comunque suggestivo) filone giurisprudenziale risulterà maggioritario. Certo è, tuttavia, che intendendo in tal modo l’etero-organizzazione, appare legittimo domandarsi cosa rimanga al “coordinamento” tra le parti, definito dalla legge 81/2017, come la possibilità per il collaboratore di organizzare autonomamente l’attività lavorativa, nel rispetto delle modalità stabilite di comune accordo dalle parti.