Si è conclusa la serie di 6 puntate di Codice – La vita è digitale, programma di Raiuno di divulgazione scientifica e tecnologica, che è un reportage di tutte le novità del mondo nel campo dello sviluppo digitale e dell’Intelligenza Artificiale. In un precedente articolo ne abbiamo detto tutto il bene possibile: il programma è tecnicamente perfetto dal punto di vista della regia, della scenografia, del montaggio, della conduzione. Molto interessanti i temi toccati, che nella stagione 2019 sono stati finalmente affrontati anche dal punto di vista delle criticità collegate alle magnifiche sorti e progressive dell’innovazione tecnologica. Qualche grado di ulteriore miglioramento è ancora possibile: a volte gli intervistati non hanno lo stesso grado di autorevolezza, e si capisce che sono lì perché le loro tesi sono ardite o le loro ricerche sono particolarmente curiose.
È il caso del filosofo Cosimo Accoto, presentato come “Research Affiliate del Mit” (qualifica che in termini accademici non significa granché) che ha sostenuto che ormai occorre riconoscere dei diritti ai robot in quanto assi simili all’uomo. No comment. Alcune domande di fondo giustamente poste sui rischi che ci può far correre lo strapotere degli algoritmi e del loro uso concentrato in poche mani hanno poi trovato risposte un po’ pasticciate e comunque sempre convinte che si troverà una soluzione. Analizzando attentamente i testi della trasmissione, chi conosce bene la materia si rende conto che la redazione ha un chiaro pendant per la singolarità (la teoria che prevede un destino di ibridazione uomo/computer), il transumanesimo, e anche un assai pericoloso riduzionismo, vale a dire il considerare l’uomo con la sua coscienza del tutto simile ad una macchina. Tra i vari intervistati convinti di questo, la più preoccupante, per non dire sconfortante – è stata la ricercatrice dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Ferrara Maddalena Marini.
Partendo dalla somministrazione di test di largo uso nella pratica clinica per analizzare gli stereotipi inconsci, la dottoressa ci ha rivenduto la sua originale proposta di utilizzare l’elettrostimolazione per rimuovere gli stereotipi negativi. Ed è questo che è del tutto esecrabile, perché il cervello con la sua coscienza e il suo inconscio non è affatto una macchina. E poi chi stabilisce che cosa è realmente stereotipo? Ciò che lo è in una cultura, non lo è in un’altra. Immancabilmente la dottoressa accennava a quelli di genere, senza tenere in minimo conto che oramai è chiaro che le teorie gender comportano giudizi discriminanti – ad esempio – sulla cosiddetta famiglia naturale, proponendo a loro volta pericolosi stereotipi. Davvero preoccupante che un progetto assimilabile alle ricerche degli scienziati hitleriani venga presentato senza un minimo di critica. Un altro preoccupante sintomo del pensiero unico diffuso nella redazione è emerso nei giudizi del cosiddetto Futurist, il nerd gesticolante con tanto di orecchino, look Matrix e pettinatura stramba (un bello stereotipo, eh!). Alla fine del servizio in cui si parlava dei robot antropomorfi che cominciano ad essere utilizzati per offrire diverse tipologie di soddisfazione sessuale, il nostro si è lasciato andare in una inconscia dimostrazione di quanto sia attuale la Finestra di Overton, quel tipo di ingegneria sociale in base al quale comportamenti o idee un tempo ritenuti addirittura aberranti possono poi, in base alle modificazioni indotte nell’opinione comune, diventare comunemente accettate.
Così il Futurist ha serenamente affermato che i rapporti sessuali tra uomini e robot possono ora sembrare disdicevoli, ma un domani potrebbero essere serenamente accettati come normali. Che dire dell’intervista alla prostituta che può svolgere molto meglio il suo lavoro grazie alla app di cui ora dispone? Il più antico mestiere del mondo legittimato perché ora può fare uso delle nuove tecnologie. Mah! Di perle così se ne trovano qua è là, ma dubito che il pubblico non competente se ne accorga, questo è il vero problema del programma. Fortunatamente sono passate anche personalità come il prof. Faggin, che ha considerato aberrante immaginare che un computer possa avere una coscienza, Padre Benanti con i suoi chiari distinguo tra scienza e religione, e altri docenti dei Politecnici di Milano e Torino che hanno riproposto alla fin fine la loro convinzione sui limiti oggettivi degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Inoltre gli editoriali, che dovrebbero esprimere un giudizio complessivo della redazione, sono risultati spesso un po’ cerchiobottisti e comunque assai sensibili alla singolarità. C’è quindi ancora spazio per migliorare un programma che tecnicamente è tra i migliori della Rai.