Gli analisti del voto in Emilia-Romagna sono al lavoro sulla misurazione politica dell’effetto “sardine” e del crollo di M5s nella vittoria “fuori partito” di Stefano Bonaccini. Ma in una riflessione sulla questione principale – il futuro del governo Conte 2 – non appare fuori luogo fissare il tragitto verso Bologna dei “grandi elettori” del ribaltone dello scorso agosto: quando Matteo Salvini giocò – e perse – una scommessa di “spallata” per alcuni versi analoga.
Nel “referendum” emiliano sulle proprie ambizioni di leadership nazionale, Salvini ha ritrovato sulla sua strada almeno alcune delle forze esterne al sistema Paese che in estate hanno agito frontalmente a suo contrasto. E val la pena di notare subito che erano – e in parte restano – “grandi elettori” interessati a intervenire nel “laboratorio Italia” per proprie specifiche finalità.
L’endorser più visibile – e forse decisivo – alle spalle di Conte è stato a suo tempo il presidente Usa Donald Trump. Sono bastate poche settimane per capirne le ragioni: la Casa Bianca vedeva in un premier amico a Roma – anche perché relativamente debole – una sponda utile nella mobilitazione contro l’impeachement in corso a Washington attorno al cosiddetto Ucrainagate. Sfumata, fra molte polemiche, l’ipotesi di un aiuto da parte dell’intelligence italiana sul caso Milfsud, gli Usa di Trump hanno con molta evidenza riassociato l’Italia all’Europa come avversario collettivo: lasciando Roma al suo destino davanti alle coste libiche e non risparmiando specifiche minacce di sanzioni commerciali a un Paese parecchio orientato verso la Cina.
Un secondo sponsor del Conte 2 è stata la Chiesa cattolica. Papa Francesco ha personalmente manifestato la sua simpatia per il premier nei giorni della crisi di governo. È un supporto continuato con visibile incisività nei mesi successivi. Il Pontefice non ha mai fatto mistero della sua contrarietà alle politiche di freno all’accoglienza dei migranti sviluppate da Salvini al Viminale. E alla denuncia di un crescente “clima d’odio” in Italia, oltre al Papa si è associato il cardinale di Bologna, Matteo Maria Zuppi (anche se all’interno dell’episcopato italiano il confronto sul versante politico è stato articolato).
E in questo contesto che ha preso forma il possibile rilancio di un “partito dei cattolici” in Italia che avrebbe come riferimento lo stesso Conte (finora premier non eletto e indipendente dagli stessi M5s che l’hanno indicato per due volte). L’esito del voto in Emilia-Romagna – patria di Romano Prodi – sembra proporsi anche come convalida di un progetto che potrebbe materializzarsi presto: in marzo ad Assisi in occasione dell’evento “The Economy of Francesco”, alla presenza del Papa. Qui i documenti di lavoro saranno nei fatti l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e l’enciclica Laudato Si’: entrambe manifesti programmatici di svolte socioeconomiche radicali, con sollecitazioni prioritarie verso la tutela ambientale e la lotta alle diseguaglianze. E l’Italia, di cui Francesco è Primate, sembra profilarsi come naturale “laboratorio”.
A favore del Conte 2 è intervenuta – con impegno e visibilità crescente – la senatrice a vita Liliana Segre. La sua discesa in campo nel rilanciare con forza l’allarme antisemitismo in Italia ha avuto come punto d’origine il dibattito in Senato sulla fiducia al governo giallorosso. È stato in quell’occasione che – in termini poco equivocabili – Segre ha associato il “bacio del crocifisso” da parte di Salvini alla sensibilità del nazismo antisemita. Successivamente, a valle di un controverso scoop sulle minacce antisemite social, Segre si è fatta promotrice di una “commissione parlamentare straordinaria contro il linguaggio d’odio”, un passo che ancora una volta è parso voler mettere sotto scacco anzitutto le forze politiche del centrodestra.
La senatrice è stata – negli ultimi 100 giorni – il personaggio a più alta esposizione mediatica in Italia (seguita, a distanza, dal leader delle “sardine” Mattia Santori). Solo nell’immediata vigilia della domenica elettorale, i riflessi politici della sua campagna civile sono stati oggetto di una percepibile presa di distanze da parte della comunità israelita italiana e del governo israeliano. Il seminario parlamentare organizzato dalla Lega ha visto la partecipazione dell’ambasciatore di Israele a Roma e dell’ex ambasciatore all’Onu, entrambi designati dal governo Netanyahu. Ambedue hanno mostrato apprezzamento per le linee di contrasto all’antisemitismo profilate da Salvini, in particolare sul terreno della lotta al boicottaggio a prodotti e investimenti israeliani. Gli stessi temi sono stati toccati dal presidente dell’Ucei, Noemi Di Segni, in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera domenica 26, alla vigilia della Giornata della Memoria. Qui Di Segni (che non ha fatto alcun riferimento a Segre e alla sua campagna) ha riproposto l’assimilazione contemporanea dell’antisemitismo all’antisionismo e a ogni forma di “non accettazione” dello Stato ebraico.
Vi è più di una ragione per credere che la genesi del Conte 2 vada fatta risalire al lungo weekend di mezza estate. L’incidente della “capitana Carola” – un’operazione in stile militare condotta da una nave olandese gestita da una Ong tedesca contro forze di sicurezza italiane che presidiavano i confini marittimi su direttiva del vicepremier Salvini – è della notte su sabato 29 giugno. Ventiquattr’ore dopo inizia un lungo e tormentato Consiglio Ue, dal quale, martedì 2 luglio, esce designata come nuova presidente della commissione Ue la tedesca Ursula von der Leyen. Il ruolo di Conte non è marginale. È lui che negozia la presidenza dell’europarlamento per David Sassoli, allora esponente dell’opposizione Pd in Italia. È Conte che, soprattutto, garantisce a von der Leyen – politicamente fragile perfino in Germania – i voti M5s necessari a sopravvivere ai primi voti di fiducia a Strasburgo (la Lega invece è contraria).
Mentre a Roma il Conte 2 si propone fin dalla nascita come “governo Orsola”, von der Leyen assegna all’Italia il portafoglio Ue degli Affari economici: all’ex premier Pd Paolo Gentiloni. Una nomina che a Roma viene accolta con soddisfazione moderata. Al successore italiano di Pierre Moscovici – feroce cane da guardia del rispetto dei parametri Ue dei conti pubblici italiani – viene infatti dimezzato lo status. Nella nuova commissione Gentiloni viene collocato sotto la vigilanza di un vicepresidente esecutivo come il lettone Valdis Dombrovskis, sperimentato pretoriano del rigorismo tedescocentrico di Bruxelles.
L’impressione che la Ue non abbia remore a disattendere le “promesse” fatte al Conte 2 e ai suoi garanti giunge anzitutto dal vertice di Malta sui migranti: la non cancellazione dei decreti Salvini – denunciata ripetutamente da settori del Pd – è figlia del totale dietrofront di Ue, Francia e Germania rispetto agli impegni ventilati per favorire l’espulsione della Lega dal governo italiano.
Il varo della manovra 2020 consegna poi segnali più equilibrati: anche se emerge nuovamente uno scarto tra i rumor di agosto fra Roma Bruxelles (all’Italia sarebbe stata concessa flessibilità fino al 3% del deficit) e le cifre reali messe in legge di stabilità. Il Conte 2 può confermare il reddito di cittadinanza e non assumere nuovi impegni fermi sul debito a condizione di mantenere il deficit poco al di sopra del 2% rispetto a un Pil recessivo; e con l’aggiunta di tasse. Il silenzio di Gentiloni – all’interno di una commissione nata debole e per ora silente su quasi tutto – è comunque significativo. Lo diventa ancor di più – e in misura rilevante nella campagna elettorale emiliana – quando il governo vara una concitata “contro–manovrina” di gennaio: assolutamente inedita quando è ancora fresco l’inchiostro sul budget pubblico annuale. Il “taglio delle tasse” per le famiglie deciso da un intervento da 3 miliardi sul cuneo fiscale (coperto da una vaga “lotta all’evasione”) e il preannuncio di una più radicale ristrutturazione dell’Irpef sarebbero stato bocciati subito e duramente da Juncker e Moscovici (e forse anche oggetto di “cartellini gialli” da parte delle grandi agenzie di rating).
Che l’Italia abbia sulla carta poco margine per stimolare i consumi e debba invece lavorare molto su produttività e competitività industriale e conti finanziari lo hanno del resto confermato a Davos gli economisti Fmi. Ma a Davos Conte non è andato: ha presieduto il consiglio dei ministri il venerdì sera prima del voto per mettere nero su bianco la “contro-manovrina”. E Gentiloni ha taciuto.