Sapida. Profumata di mare. Un vero e proprio concentrato di umami – il quinto gusto della cucina giapponese – in versione 100% mediterranea. È la Colatura di alici di Cetara, la tipica salsa della cittadina in Costiera Amalfitana, ottenuta dal processo di salagione delle alici. Oggigiorno è nota specialmente per il suo abbinamento agli spaghetti, ed è anche un ottimo condimento per le verdure a foglia verde. Ma vanta, in realtà, una storia antichissima. Che risale addirittura agli antichi romani.
Già il cuoco imperiale Apicio, nel II secolo a.C., faceva largo uso nei propri banchetti di una salsa ottenuta dal pesce. E qualche secolo più tardi, nel III d.C., l’autore Gargilio Marziale ne lascia la ricetta in una delle sue opere: in un coccio o un vaso di coccio panciuto o cilindrico disporre prima uno strato compatto di erbe aromatiche tritate, poi uno strato di pesci piccoli e interi – presumibilmente alici – e grandi pesci tagliati a pezzetti (forse sgombri o tonni), coprire quindi il tutto con uno strato di sale grosso integrale, spesso due dita. L’orcio veniva chiuso con un coperchio di legno o di sughero e, dopo sette giorni, occorreva cominciare a rimestare con un cucchiaio di legno o un bastone. La stessa operazione veniva ripetuta una volta al giorno per venti giorni. Si otteneva così una salsa cremosa che veniva pressata per raccoglierne un liquido: il garum.
In epoca romana esistevano diverse varietà di garum, tanto che la qualità del prodotto e il suo anno di realizzazione venivano indicati con lettere dipinte sulle anfore. Esisteva, ad esempio, il gari flos, il fiore del garum, cioè il più puro, il primo liquido filtrato. Ma questa salsa vantava, in realtà, numerose varietà e denominazione a seconda del pesce da cui era ottenuta: tonno, alici, sgombri, murene od ostriche.
La colatura di alici come la conosciamo oggi, però, è stata inventata intorno al XIII secolo dai monaci cistercensi che vivevano nei pressi di Amalfi: dovevano trovare un modo di conservare il pescato che, durante l’estate, ottenevano dalla propria flotta. A valle del colle di San Pietro a Tuczolo, dove sorgeva il monastero, avevano installato una modesta industria dove le alici venivano deliscate ed eviscerate, pulite e conservate all’interno di botti, alternate a strati di sale. Sul coperchio della botte veniva poi posta una grossa pietra a mo’ di pressa. All’inizio dell’inverno, le alici avevano completato la maturazione. La “scoperta” della colatura di alici è avvenuta proprio in questo modo: dalle doghe scollate delle botti, era fuoriuscito un liquido il cui profumo era particolarmente gradevole. Il monaco cuciniere ne aveva apprezzato a tal punto il gusto che utilizzò la salsa immediatamente sulle verdure lesse. L’abbinamento con la pasta lunga arrivò nel XVI secolo quando i pastai minoresi, atranesi e amalfitani diffusero questo formato.
E oggi come viene prodotta la colatura di alici? Il suo processo di realizzazione è definito con precisione all’interno del disciplinare di produzione. La nota salsa ha infatti ottenuto il riconoscimento Dop nel 2020. Le alici (o acciughe) devono provenire esclusivamente dal Golfo di Salerno da fine marzo a fine luglio. Vengono quindi private della testa e delle viscere e sistemate, seguendo la tecnica “testa-coda”, in un apposito contenitore in legno di rovere, alternate a strati di sale, in una maniera simile a quella dei monaci cistercensi. Il contenitore viene chiuso con un coperchio di legno su cui vengono collocati dei pesi. Per effetto della pressatura e della maturazione, dal coperchio inizia a fuoriuscire del liquido, che viene raccolto e conservato nella stessa botte in cui le alici erano state poste a maturare. Ne risulta un distillato limpido, di colore ambrato e dal sapore deciso: è la Colatura di alici di Cetara Dop.
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