La legge elettorale vigente, il Rosatellum, renderebbe certamente possibile andare al voto dopo l’elezione del capo dello Stato, ma produrrebbe una situazione che Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo, definisce “fortemente problematica”.
Per Mangiameli occorre una riforma che faccia tesoro della lezione più importante che viene da questa strana legislatura. Con un obiettivo: “Ognuno deve correre da solo, e poi si fanno le coalizioni per governare”.
È auspicabile una trattativa sul nome del presidente della Repubblica senza un accordo sulla legge elettorale?
Direi di no, perché è molto improbabile che la quiete forzata del sistema politico possa durare ancora per molto, sia che si voglia andare al voto nella primavera del prossimo anno, sia che si punti a quella del 2023.
Che cosa vorrebbero i partiti dal sistema elettorale?
Se si pensa a una impostazione di tipo bipolare, come sembra che facciano, ad esempio, FdI e Lega, ma anche il Pd, allora sarebbe auspicabile un sistema elettorale basato su meccanismi che favoriscono coalizioni elettorali. Il Pd, in particolare, punterebbe ad un simile meccanismo per ingabbiare il M5s. E qui sorgono i primi problemi.
In che senso?
Non è detto che il M5s, per la varietà delle posizioni al suo interno, possa accettare un meccanismo che consolidi l’idea di un’alleanza strutturale con il Pd. Senza considerare che i transfughi del M5s si stanno muovendo verso gruppi che potrebbero puntare ad una logica elettorale diversa.
E quale sarebbe?
Siamo di fronte ad un assetto politico che non è perfettamente bipolare, non solo per la peculiare posizione che potrebbe assumere il M5s, che da sempre è stato per un sistema proporzionale, ma anche per via di una certa frantumazione politica al centro che punterebbe ad una legge elettorale proporzionale senza particolari correzioni di tipo maggioritario.
Si fa presto a dire centro: in realtà ognuna delle sigle che lo compongono vorrebbe una cosa diversa, a propria immagine e somiglianza.
Al centro si sono formate diverse sigle politiche. Accanto a FI che ha accentuato i suoi caratteri centristi – metodo moderato, principi garantisti, valori liberali sociali e cristiani, appartenenza al Ppe – si muove ormai una galassia di sigle che va da Coraggio Italia a +Europa, passando per Italia viva, Azione, ecc. Quanto valgano realmente non è dato sapere. I sondaggi non accreditano a questa area un consenso molto alto, ma resta elevato anche il numero degli elettori che non si esprime.
Quindi?
Non è da escludere che il centro possa risultare determinante per la formazione di una qualche coalizione.
Ed è evidente che saranno tutti convinti proporzionalisti.
Come detto la loro aspirazione non è maggioritaria, ma resta il problema della frammentazione. Basterebbe una soglia minima del 3% a mettere in crisi molte sigle. Il problema di fondo, come sempre in questi casi, è che ci sono più desiderata che la legge elettorale dovrebbe soddisfare. Io partirei da un dato.
Quale?
Dovremmo chiederci – ma dovrebbero farlo soprattutto le forze politiche – cosa abbiamo imparato da questa legislatura.
Ebbene?
Una cosa innanzitutto: è bene che i partiti non si contrappongano frontalmente, perché possono avere bisogno l’uno dell’altro, per assicurare la governabilità del Paese. È avvenuto nel governo Conte 1, nel Conte 2 e adesso nel governo Draghi. I partiti fanno bene a trovare, e non solo in condizioni di eccezionalità come la pandemia, un comune terreno dove potersi incontrare, eventualmente anche con una composizione variabile.
Perché, secondo lei?
Perché gli elettori italiani si fidano di più di un governo di coalizione formato da partiti che competono l’uno rispetto all’altro, piuttosto che di blocchi elettorali che si infrangono subito dopo avere ottenuto i vantaggi elettorali, come ai tempi dei governi Berlusconi e Prodi.
Sta auspicando un modello alla tedesca?
Stiamo ai fatti. Dalla Germania viene una lezione precisa. Lì i partiti corrono autonomamente per la conquista del consenso e dei seggi nella Camera Federale (Bundestag), anzi accettando l’ipoteca del voto nei collegi uninominali che favorisce solo i grandi partiti. Però le coalizioni di governo, in genere definite con un contratto costituzionale, reggono bene sino a fine legislatura.
Nelle elezioni del 26 settembre scorso, a parte la Grosskoalition di Spd e Cdu-Csu, si sono ipotizzate altre coalizioni: “Giamaica” (Verdi, Cdu, Liberali), Kiwi (Cdu, Verdi), sino a giungere a quella “semaforo” (Spd, Liberali, Verdi), che si è appena insediata.
Vede? Vuol dire che il dibattito era aperto sin dalla campagna elettorale, dove non era stata dichiarata alcuna coalizione, e perciò tutti si erano resi disponibili per partecipare all’azione di governo senza pregiudizi particolari. Non sarebbe un bene anche per il nostro Paese se i partiti conducessero campagne elettorali limpide e senza trucchi elettorali e poi si accordassero per governare sulla base del voto degli elettori?
Ma era stato lei, su queste pagine, ad auspicare una nuova stagione del bipolarismo.
È vero! Ma ciò presupponeva un bipolarismo serio e tale da non richiedere comunque marchingegni elettorali per alterare la volontà degli elettori. Non dimentichiamoci delle due sentenze della Corte costituzionale sulla Legge Calderoli e sull’Italicum. In realtà, il sistema politico nelle elezioni del 2013 e ancora in quelle del 2018 non era più bipolare e la legge elettorale non può essere la camicia di Nesso; altrimenti, la democrazia muore avvelenata, come Ercole.
La partita del Colle aiuta o sfavorisce l’apertura a questo assetto?
Dovrebbe favorirlo, perché è indubbio che l’idea di eleggere un presidente della Repubblica fortemente condiviso – almeno questo sembra l’intento attuale – va in questa direzione.
Perché sarebbe così importante?
Perché vorrebbe dire che c’è un terreno in cui tutti potenzialmente si riconoscono, e ciò che divide i partiti non è più la Repubblica – come è sempre accaduto nella nostra storia repubblicana, dal fattore K al berlusconismo – ma le questioni contingenti: il reddito di cittadinanza, le pensioni, le aliquote Irpef, ecc. Senza contare che adesso, grazie anche all’Ue, lo stesso Pnrr ha determinato un terreno politico comune, fatto di green deal, digitalizzazione, sostenibilità, economia circolare, coesione, ecc. Quale partito si è schierato contro tutto ciò? Nessun partito.
D’accordo. Se questa è la lezione della legislatura, cosa dovrebbe fare la legge elettorale?
Dovrebbe consentire formazioni di coalizioni che reggono alla prova della governabilità. Non importa se dichiarate prima del voto o formate successivamente. Questo, peraltro, dipende in massima parte dal risultato elettorale.
Vuol dire libertà di aggregazione post-voto? Lei è per il proporzionale?
No, sono convintamente per il maggioritario e, in particolare per il sistema elettorale a collegi uninominali ad un turno (all’inglese). Però, quello che dev’essere chiaro è che se tutti devono poter giocare la stessa partita senza preclusioni, non ci possono essere coalizioni predeterminate.
Il Mattarellum?
Neppure il Mattarellum, che è stato il sistema elettorale che più di ogni altro si è avvicinato ai miei desiderata, andava bene, sotto questo punto di vista.
Per quale motivo?
Perché le forze politiche che marciavano divise sulla quota proporzionale si univano in quella maggioritaria per conquistare i collegi e spartirseli. Questo non è accettabile. Ognuno deve correre da solo, e poi si fanno le coalizioni per governare.
Non è quello che è successo nel 2018?
In parte sì, anche se la legge attuale prevede vantaggi elettorali per quelle che definisce coalizioni, le quali alle prove dei fatti non hanno retto. E, non va dimenticato, non hanno retto neppure i partiti.
In questa prospettiva il Rosatellum va bene o no?
Il Rosatellum è fortemente problematico, perché prevede il voto congiunto maggioritario/proporzionale, cioè con un solo voto si vota per il collegio e per le liste collegate, mentre le due partite dovrebbero essere distinte, prevedendo il diritto dell’elettore ad esprimere separatamente il proprio voto nel collegio uninominale e per la lista proporzionale.
Poi c’è anche la riduzione del numero dei parlamentari con cui fare i conti. Qual è il suo effetto sul Rosatellum?
Un disallineamento enorme nella quota maggioritaria: i collegi maggioritari del Senato ricomprendono circa un milione di abitanti, mentre quelli della Camera circa mezzo milione. Troppo grandi e problematici per dei candidati dei territori. In più c’è un ulteriore problema che riguarda l’elettore.
E cioè?
Bisognerebbe evitare che il gioco delle diverse soglie collegate alle coalizioni porti ad eleggere candidati di un partito con i voti di altri partiti. In questo modo si disorienta l’elettore che non comprende più l’efficacia del proprio voto. La verità è che la legge dovrebbe essere rifatta, anche se non in toto, per avere un equilibrio adeguato rispetto all’attuale sistema politico.
Si potrebbe votare con il Rosatellum?
Per dettato costituzionale la Repubblica deve avere sempre una legge elettorale che consenta di tenere le elezioni in qualsiasi momento. Ma con la riduzione dei parlamentari – come detto – gli inconvenienti della legge elettorale attuale sarebbero aggravati.
Dunque la legge esistente va rifatta. C’è il tempo per farlo?
Dipende dall’accordo tra le forze politiche. Se condividessero i punti che ho cercato di spiegare, lo si potrebbe fare in poco tempo. Tuttavia, se i partiti perseguono il loro massimo vantaggio, potrebbero non mettersi d’accordo anche per molti anni.
(Federico Ferraù)
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