Dopo essersi espresso in un articolo per Repubblica, lo scrittore Aurelio Picca è tornato a parlare del caso di Colleferro nel quale ha perso la vita il giovane 21enne Willy e lo ha fatto tra le pagine de La Verità, in una intervista di Francesco Borgonovo. La violenza di Colleferro è forse scaturita da un eccesso di libertà? “La libertà che intendo io è prima di tutto responsabilità individuale. Rispetto a sé stessi, al proprio lavoro, alla società. Ma questa responsabilità, questo senso del dovere, sono ormai perduti da tanto tempo”, ha commentato Picca. Nel parlare di lotta, di battaglia, lo scrittore fa riferimento ad un “corpo a corpo” buono, quello che “ti insegna a fronteggiare la realtà”. “Un tempo non c’ era bisogno di essere sciuscià o poveri sfruttati per andare a bottega e imparare un mestiere […] Oggi se dici a un ragazzo di andare a fare il calzolaio, ti sputa in faccia. Io invece introdurrei l’ artigianato come materia di studio nelle scuole”, ha proseguito. Per quanto accaduto a Colleferro lo scrittore ha coniato una descrizione: “Quella la chiamo ferocia della perversione. Perché è una perversione”. A suo dire, infatti, la ferocia non è necessariamente cattiveria: “È anche indice di vitalità, di forza animale e fisica. Non è farsi gonfiare i muscoli in palestra. Ma correre, lavorare, usare il corpo. Nella ferocia c’ è il nostro istinto primordiale, che non cambia”.
AURELIO PICCA COMMENTA I FATTI DI COLLEFERRO
Nel corso dell’intervista Aurelio Picca pone l’accento sulla figura del padre e commenta coloro che puntano il dito contro la “violenza maschile” e la “società patriarcale”: “Non sono d’ accordo con questo genere di cose. Io non ho procreato, ma con i miei studenti sono stato padre. Mi hanno amato come un padre e io li ho amati da padre. Non c’ entra niente l’ autoritarismo”. Nel drammatico caso di Colleferro è stata chiamata in causa anche la cultura fascista. In merito lo scrittore ha asserito: “Questa cosa di tirare sempre in ballo il fascismo è una perversione culturale, vuol dire che non si conosce, non si sa… Io parlo di simboli, che sono eterni, qui il fascismo non c’ entra niente”. Quindi ha concluso con una speranza che riguarda proprio il futuro dei ragazzi: “Io vorrei che i ragazzi riprendessero il corpo a corpo con la realtà. Ho scritto che dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, dove siamo campioni. Vorrei che i ragazzi riprendessero a giocare con i chiodi e con il martello, perché anche se si fanno male sono contenti lo stesso. Vorrei che li rimettessimo in pista, nel mondo. Che imparassero a combattere per assumersi le loro responsabilità”.