2.300 studenti radunati da tutta Italia, provenienti da 116 istituti scolastici. Seicento lavori prodotti, tra tesine, elaborati artistici, opere di narrativa. Questi in estrema sintesi i numeri della 23esima edizione dei Colloqui Fiorentini. Numeri importanti, che dicono molto, ma certo non tutto di questo concorso nazionale ogni anno dedicato ad un grande della nostra letteratura. La tre giorni di palazzo Wanny a Firenze è stata l’atto finale di un lavoro cominciato con l’inizio dell’anno scolastico, che ha visto collaborare, dialogare, incontrarsi regolarmente docenti e studenti a colloquio con un autore, quest’anno Giovanni Pascoli. Ci sono stati 2.300 studenti della scuola superiore che hanno detto sì a questo lavoro su un poeta apparentemente facile, ma molto profondo e complesso, e l’hanno fatto liberamente, non necessitati dall’imposizione del programma e delle valutazioni scolastiche.
I Colloqui Fiorentini sono innanzitutto un felice momento di libertà: lo studente che dice sì a questa esperienza la fa sua, la rende importante fin dall’inizio per sé, crede che possa essere bella e significativa. Forse è proprio qui il motivo della riuscita di questa iniziativa unica nel panorama scolastico italiano. Ma c’è un altro importante aspetto, colto acutamente da Gilberto Baroni, venerato patron dell’iniziativa: “Quello dei Colloqui Fiorentini – ha detto – è il regno dell’io. Qui si capisce che cos’è un uomo: esigenza di significato”.
Esigenza di significato. Per meno, viene da dire, non ci si muove così, non si resta attaccati con passione alla “letteratura”. “Non siamo qui – ha detto il poeta Davide Rondoni, uno dei più apprezzati relatori intervenuti – per formare dei critici letterari. E nemmeno la scuola deve avere questo compito”. Il problema è un altro e lo ha bene individuato un altro relatore, il prof. Emanuele Riu, citando Osip Mandel’štam: la letteratura è come un messaggio in una bottiglia sepolta nella sabbia. Io trovo la bottiglia, leggo il messaggio e scopro, con grande sorpresa, che quel messaggio era indirizzato proprio a me! Senza questo riconoscersi, ritrovarsi, studiare è solo fatica sprecata e la letteratura è solo letteratura, nel senso più banale e più angusto del termine. L’insegnamento scolastico è molto spesso fallimentare perché non ha bottiglie nella sabbia da far scoprire: è solo un programma da svolgere e nozioni di critica letteraria con le quali ingozzare gli studenti.
Un’immagine, questa del messaggio nella bottiglia, che gli studenti che hanno lavorato su Pascoli grazie ai Colloqui Fiorentini sono tutti pronti non solo a capire, ma anche a sottoscrivere. “C’è una voce nella mia vita”, aveva scritto il grande poeta romagnolo. Ora, è quello che abbiamo capito ascoltando gli interventi degli studenti ed osservandoli durante i tre giorni di convegno, nella loro vita c’è anche la voce di Pascoli, che li ha raggiunti, li ha toccati, ha saputo dir loro tante cose profonde, aprendo gli occhi alla novità o facendo ritrovare il nuovo in quello che già era dato per conosciuto.
Alice, di Caltanissetta: “Leggendo Pascoli ho ritrovato lo stupore anche per le più quotidiane manifestazioni della natura, come la pioggia”. Daniele di Roma: “Pascoli mi ha aiutato a ritrovare le sensazioni più mie, a guardare le cose e le persone con uno sguardo più puro”. Rossana, di Somma Vesuviana: “Ho capito, grazie ai suoi versi, cosa significa amare il proprio paese, averne perfino la nostalgia”. Le fa eco Martina, una sua compagna di scuola: “La voce di Pascoli è come la voce della coscienza, che ci spinge a vivere in un modo non superficiale. Potremmo salvare il mondo se la seguissimo”. Bianca, di Viterbo: “Avevo un’immagine stereotipata, troppo semplice di Pascoli. Grazie a lui, leggendo una poesia come I due orfani, ho sentito un dolore che non avevo mai provato”. A proposito di dolore, Marta di Monza confessa che quei versi “hanno ridestato una mia sofferenza che avevo dimenticato. E riprovarla mi ha dato dolcezza”. Non era Pascoli che diceva, nella prefazione ai Primi poemetti, che non avrebbe visto tanto bello se non avesse visto tanto nero?
Dalla Lombardia si rimbalza alla Sicilia con Giulia di Gela: “La voce di Pascoli mi ha raggiunta durante il lavoro di gruppo, mentre con le mie compagne leggevamo la poesia Il vischio. In modo misterioso quella voce risuonava in modo diverso in ciascuna di noi”. E dalla Sicilia si risale vertiginosamente in Valle D’Aosta. Nicole, di Verrès, conferma qualcosa di già espresso da una ragazza di Caltanissetta: “Abbiamo lavorato sulla figura della madre in Pascoli e abbiamo riscoperto grazie a lui l’importanza di avere una famiglia, di ricevere e ricambiare affetti che sono essenziali per la nostra vita”. Le questioni si innalzano e diventano più complicate. Fabrizio si chiede se sia possibile o meno guardare la realtà in modo oggettivo. Daniele ribatte che il grande insegnamento di Pascoli sta nel guardare la realtà in modo profondo e problematico, mentre noi oggi tendiamo ad avere delle visioni che la spaccano nettamente in due. Viola riflette che è limitante bollare Pascoli di pessimismo: chi si affida alla poesia per aiutare gli uomini in fondo crede che gli uomini possano capire e migliorare. Del resto, l’ha detto lui, c’è un fanciullino in ognuno.
Ecco, questi sono solo alcuni spunti raccolti durante i lavori di uno dei seminari in cui ragazzi di diverse provenienze geografiche e culturali si sono confrontati e si sono raccontati il loro incontro con Pascoli. Tutti d’accordo su una cosa: la sua poesia lascia “più vita di prima”, cioè rende più ricca e consapevole la vita di ognuno. Con questo desiderio Pascoli chiudeva il suo trattato sul fanciullino.
E i docenti? Felici e stupiti di vedere come gli studenti si siano coinvolti, siano diventati protagonisti, desiderosi di partecipare, di esserci, cosa rara nelle aule scolastiche. Paolo, docente in un liceo di Trieste, dal 2009 viene con i suoi studenti a Firenze: “I Colloqui Fiorentini sono l’unico corso di aggiornamento che per me ha un valore. Soprattutto per l’entusiasmo che mi dà, un vero alimento per il mio lavoro”. Irene, Annalisa e Maria Antonietta sono tre docenti di letteratura in un liceo della provincia di Brindisi. Sono venute a vedere, a capire, senza studenti, prima di proporre i Colloqui Fiorentini nelle loro classi. Irene: “Non fossi venuta avrei impostato il lavoro in modo tutto diverso. Qui ho capito che nell’approccio al testo bisogna lasciare liberi i ragazzi di confrontarsi e di esprimersi”. Annalisa: “Mi ha molto colpito questa immedesimazione comune e allo stesso tempo diversa. Ogni ragazzo trova nel testo un significato tutto suo. Non sarebbe poesia se non ci interrogasse”. Maria Antonietta: “È proprio importante calarsi nell’autore. Qui non si tratta tanto di letteratura, ma di vita. Questo mi ha davvero emozionato”. Commenti di docenti che respirano un’aria nuova. Quella che stranamente si respira a fatica nella scuola italiana.
Durante i Colloqui Fiorentini veniva davvero da immaginare Giovanni Pascoli aggirarsi tra i ragazzi, ascoltare i relatori, con il suo abito un po’ sgualcito, le scarpe sporche di terra, l’aspetto umile e dimesso di “poeta contadino”. Quanto sarebbe rimasto stupito, ma anche profondamente grato e felice! Lui che non voleva giudizi classificatori, ma voleva commozione, assenso, amore per la sua poesia. Lui che desiderava che gli uditori dei suoi versi dicessero: “Com’è vero! E io non ci avevo pensato!”.
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