Una comunità di oltre 2.300 studenti e docenti per i quali l’incontro con un autore della letteratura, poeta o romanziere che sia, diventa l’occasione di confrontare la propria umanità, di scoprire sé stessi. Questo sono i Colloqui Fiorentini, che dal 29 febbraio al 2 marzo, a Palazzo Wanny (Firenze), celebrano la loro XXIII edizione, incentrata su Giovanni Pascoli, dando continuità a un’idea di Gilberto Baroni, presidente di Diesse Firenze. I partecipanti accedono in virtù di tesine preparate in gruppo che diventano argomento di discussione negli spazi di confronto tra studenti. “Siamo arrivati in tutte le regioni d’Italia, ma anche all’estero”, spiega Baroni. “Questa volta parteciperà una scuola di Lisbona, negli anni passati ci sono state scuole di Londra e Bruxelles. Nell’edizione in cui si parlava di Buzzati erano collegati istituti dell’America Latina. È qualcosa che sta camminando. Un’occasione grande di risposta alle esigenze della scuola italiana, che non può vivere di didattichese, di burocrazia, di convenzionalismi, di astrazioni più o meno ideologiche: ha bisogno di tornare ad assaporare la carne e il sangue della vita nelle ore di lezione”.



I Colloqui Fiorentini esistono ormai da più di vent’anni. Da quale intuizione sono nati e come sono cresciuti nel tempo?

C’era un docente, ed ero io, che insegnava in un istituto tecnico per il turismo in una periferia come quella di Firenze, che tutti possono immaginare di che colore e di che cultura fosse permeata. Avevo a che fare con tanti studenti che sembravano immersi in uno strato di materialismo spesso. Fatto sta che il mio modo di insegnare la letteratura ridestava i ragazzi a un livello di coscienza personale e di rapporto con sé stessi e con la vita che prima non avevano. Nelle ore di lezione si creava un silenzio particolare, tanto che alcuni colleghi dicevano che terrorizzavo i miei studenti; invece era un silenzio profondo, nel quale accadeva qualcosa che poi si ripete nei Colloqui Fiorentini: i ragazzi per la prima volta si aprivano a un sentore di destino personale e universale. Nelle lezioni sugli autori e le loro opere si aprivano a un confronto personale. Contemporaneamente, però, sentivamo che si abbattevano le barriere della classe e di fatto ci trovavamo al centro del mondo umano, perché trattavamo le questioni fondamentali di ogni uomo, di ogni latitudine, di ogni epoca.



Come è possibile un incontro personale con l’autore da parte del singolo studente e della classe? Qual è l’approccio, quale il metodo e la relazione che si deve stabilire con i ragazzi per realizzare tutto questo?

Come diceva don Giussani, all’inizio c’è una presenza che si impone, non perché terrorizza, ma perché conquista, affascina, parla in modo insolito. È la presenza dell’insegnante, che è tale nella misura in cui ha una profonda familiarità con sé stesso, con le sue stesse domande, esigenze, interrogativi. Uno studente mi diceva: “Professore, le sue parole sono parole dense, che pesano”. Queste parole hanno una capacità di raggiungere l’altro, di destarlo a livello della sua coscienza umana, di uomo in quanto uomo. Le esigenze e le domande di cui il docente è testimone sono anche quelle dei ragazzi. Nasce in questo modo un rapporto dialogico fra uomo e uomo, nel quale l’insegnante manifesta una stima profonda nei confronti dei suoi studenti.



Da dove nasce questa stima, questo rapporto personale?

Se parlo di astrazioni tipo il positivismo, il romanticismo, il decadentismo è chiaro che sono tutte questioni ideologiche, non esistono nella realtà, sono convenzioni. Ma se parlo di sorpresa, amicizia, dolore,  gioia e mentre lo faccio queste parole arrivano agli orecchi e al cuore degli studenti cariche di una certa vibrazione, allora le recepiscono, le trattengono, le custodiscono, sono come messi in un movimento: iniziano finalmente a vivere la vita dal punto di vista umano.

Anche nell’autore non vedono qualcuno di lontano ma una persona come loro che ha avuto gli stessi sentimenti e che si è posto le stesse domande?

Sì, è questo. La lezione allora diventa un dialogo sulle cose che ci interessano davvero. Un dialogo con l’autore, con il professore, fra gli studenti, continuamente invitati a intervenire a partire non dalle loro idee, ma dalla loro esperienza umana.

Come sono cambiati negli anni i ragazzi nel rispondere a queste sollecitazioni, nel partecipare a queste lezioni? A volte li si accusa di essere apatici, indifferenti a tutto. Sono davvero così?

Quando sono partito, i ragazzi avevano uno spessore di materialismo spaventoso, tanto è vero che con qualcuno mi ci sono voluti mesi di lavoro per destare una domanda personale. Adesso, invece, i ragazzi hanno una maggiore difficoltà a consistere in qualcosa. Il nostro metodo è uguale e identico, perché non c’è niente che metta in movimento l’altro come un rapporto, una relazione.

Perché è così efficace questo metodo?

Ho ritrovato casualmente, un anno dopo il primo incontro, un ragazzo che aveva partecipato ai Colloqui Fiorentini su Dante Alighieri. È sardo ma l’ho rivisto a Firenze perché nel frattempo si era iscritto all’Università di Pisa. “Senza i Colloqui Fiorentini”, gli dico, “non avrei neanche saputo della tua esistenza”. E lui mi ha risposto: “Neanch’io prima dei Colloqui Fiorentini in un certo senso sapevo di esistere”. La nostra iniziativa non è una proposta culturale, ma una provocazione che interpella uno a uno tutti i partecipanti a partire da un’esperienza umana che viene illuminata, irrobustita, incrementata. Quel ragazzo non ha scelto di fare lettere all’università, ma di fare fisica. E la scelta è avvenuta grazie ai Colloqui Fiorentini, che provocandone l’umanità gli hanno anche chiarito quella che è la sua vocazione specifica. Quello che muove i ragazzi è un incontro da uomo a uomo in cui si sentono presi in considerazione, stimati.

Materialmente come funzionano i Colloqui Fiorentini, chi partecipa cosa si deve aspettare?

Un giorno ebbi la fortunata esperienza di poter proporre a tutti questo mio modo di insegnare. Così nacquero i Colloqui Fiorentini: all’inizio pensavo di raggiungere un centinaio di persone di Firenze e invece nel giro di qualche settimana sono diventati 200, 300, 400. Dovevamo cambiare continuamente la sede. Da lì in poi è scattato il passaparola: noi siamo cresciuti grazie a questo. Per partecipare bisogna presentare una tesina di gruppo su un autore: i Colloqui Fiorentini non sono per sfaccendati ma uno spazio molto intenso e serio di lavoro. Queste tesine, divise per biennio e triennio, andranno anche a concorso, con premi in denaro. Chi vuole può concorrere alla sezione narrativa, con un’opera composta dagli studenti, o alla sezione arte, con quadri, sculture, collage, video. Ciò che serve a eccitare la creatività dei ragazzi, a livello di scrittura e di opere d’arte.

Come è suddiviso il lavoro?

I Colloqui Fiorentini durano tre giorni, nei primi due ci sono due interventi di relatori al mattino, in plenaria. Mentre nel pomeriggio ci si divide in sei o sette gruppi seminariali. I ragazzi, guidati da un docente del Comitato didattico, presentano i loro lavori, li discutono. La mattina del  terzo giorno c’è la relazione conclusiva del convegno fatta dal direttore Pietro Baroni. Subito dopo si premiano i primi tre delle diverse sezioni di concorso, più i lavori che ricevono una menzione. Le tesine vengono realizzate da gruppi da due a cinque persone: ci interessa assolutamente incentivare l’idea della cultura come dialogo, confronto, incontro, paragone, creatrice di familiarità e comunità.

Quest’anno la scelta è ricaduta su Pascoli. C’è un motivo particolare per cui avete scelto questo autore?

Tendiamo ad alternare un prosatore e un poeta. E quest’anno toccava al poeta. Il titolo è significativo: C’è una voce nella mia vita. È un verso, appunto, di Pascoli. C’è la possibilità che anche a questi ragazzi arrivi una voce che li desti dal sonno, dall’ovvietà, dalla banalità. Una voce che è mia, di me studente o di me docente.

(Paolo Rossetti)

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