“È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d’una pagina bianca…”
Con queste parole pronunciate da Suor Teodora ne Il cavaliere inesistente Calvino pone un’affermazione coraggiosa: lo scrittore e l’uomo (“la penna ed io”) tendono alla verità, oggetto ultimo della letteratura e della vita. All’inizio del nostro percorso con Calvino c’è una constatazione: occorre avventurarsi alla ricerca della verità, pur nel confuso e tortuoso labirinto che è il mondo. L’universo è un disarmonico meccanismo infernale; ma a tale groviglio noi uomini non ci possiamo rassegnare. Non ci è possibile rinunciare alla ricerca di un ordine, di un disegno, di una verità.
Certo Calvino si scopre sempre più smarrito in una realtà di cui progressivamente perde il senso unitario e in cui quindi la complessità emerge come caos incontrollabile: è la società moderna alienante delle grandi città, delle fabbriche, delle industrie, della meccanica, dei motori, delle velocità disumane. La società in cui l’uomo, l’operaio, il lavoratore, il padre di famiglia è soffocato da nuvole di smog, privato della possibilità di ritrovarsi e di ritrovare un rapporto armonico col mondo. È la città infernale di Marcovaldo, in cui l’afflato di liberazione dell’uomo è continuamente soffocato dal ritmo spietato dell’orario di lavoro, di logiche di mercato, di produzione sempre meno comprensibili ed accettabili. Il protagonista delle storie di Calvino è l’uomo contemporaneo “dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso” (nota del 1960 alla riedizione de I nostri antenati) sempre più solo, in mezzo a milioni di suoi simili.
Eppure in mezzo a questo inferno, ci dice Calvino, egli continua a cercare la verità e lo fa attraverso la letteratura. Essa assume un valore decisivo, un ruolo insostituibile per l’umanità e la società moderni. Quale? Non quello di rappresentare oggettivamente il reale – da qui la sua polemica con la letteratura dell’oggettività (vedi Il mare dell’oggettività in Il midollo del leone) –, non quello di denunciare le ingiustizie sociali, emulando vanamente la politica e neppure quello di descrivere con rassegnazione l’inestricabile groviglio del mondo.
La letteratura invece si configura proprio come “sfida al labirinto”, come ricerca, nell’inferno, di ciò che non è inferno. La parola “verità” si può intendere in Calvino come sinonimo di non-inferno, di disegno nel caos, di ordine nel disordine. Non a caso in Lezioni americane Calvino dice di prediligere la linea retta, cioè la nitidezza di una traiettoria pura e perfetta, di una direzione certa, rispetto alla sfuggente imprevedibilità della linea curva.
Il termine verità è dunque estremamente significativo per Calvino, tanto quanto è raro nelle sue opere. È una verità che non attiene all’ordine trascendente, all’ambito della rivelazione divina. Calvino dichiara di vivere in un orizzonte areligioso (vedi nota introduttiva a Gli amori difficili) e difatti quasi mai nelle sue pagine si intravede una prospettiva religiosa esplicita. Nel saggio Il midollo del leone egli dichiara: “Alle ricerche di un dio ignoto nel confuso ritmo delle città nuove e antiche, preferiamo la ricerca di qualche avaro seme di verità nel ritmo ben più scandito e lineare d’una esistenza, d’una avventura, d’un amore […]” e sembra riecheggiare il Montale di Non chiederci la parola: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo”.
La verità quindi l’uomo dovrà conquistarla da solo, faticosamente, pericolosamente, aridamente, con la sua capacità di indagare il reale e di conoscerlo in tutti i suoi aspetti. Eppure Calvino è ottimista sulla possibilità di trovare il filo d’Arianna che porti fuori del labirinto, la “formula che mondi possa aprirti”. La caleidoscopica varietà del reale affascina Calvino tanto più in quanto riesce ad intuire la possibilità di dare un senso al multiforme, di godere della complessità del cosmo come composizione di un disegno unitario e intellegibile.
L’uomo con la ragione e lo scrittore con la letteratura dovranno indicare ciò che è moralmente buono e ciò che buono non è; ciò che ha valore e ciò che non ne ha: “La letteratura deve rivolgersi a questi uomini […] deve insegnar loro, servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli ad essere più intelligenti, sensibili e moralmente forti” (Il midollo del leone).
Una ragione che sia capace, secondo l’immagine illuministica – ambito culturale di riferimento esplicito di Calvino –, di analizzare, interpretare e valutare la complessità della vita e del mondo, fino a coglierne l’ordine segreto, fino a scioglierne il mistero.
È il compito dell’intellettuale, che finalmente recupera il suo ruolo nella società e nella vita degli uomini, dopo i dubbi, le titubanze, le assenze ingiustificate, le abdicazioni del ventennio fascista e dopo il sentimento di estromissione dalla storia e di dolente inutilità avvertito durante l’avventura della resistenza.
Un compito orgogliosamente rivendicato, negli anni dell’immediato dopoguerra, una responsabilità enorme e imprescindibile. Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale chi aveva combattuto come Calvino per la libertà, chi aveva patito la tragedia dell’occupazione, chi aveva vissuto la degradazione dell’umanità, della politica, della cultura, sentiva ora di avere una straordinaria possibilità; sentiva di poter ricominciare da capo sotto l’egida della ragione e della volontà.
Con questa missione ideale Calvino si gettò nell’agone letterario e culturale, nella battaglia politica e civile.
Ben presto il suo entusiasmo si sarebbe scontrato con i limiti della politica, con i limiti della letteratura, con i limiti della ragione, con il limite dell’uomo, sul quale aveva riposto tutte le speranze. Le contraddizioni della storia universale e personale avrebbero messo a dura prova l’entusiastica fiducia di Calvino e della sua generazione.
Nella XXII edizione dei Colloqui Fiorentini proviamo a seguire l’ipotesi con cui egli affronta la vita.
Come reagirà l’uomo e lo scrittore Italo Calvino di fronte alla cocente delusione politica, di fronte agli interrogativi dell’amore, di fronte alle domande misteriose che getta nel cuore dell’uomo la visione della bellezza, di fronte alle contraddizioni del dolore e della morte? Sarà capace la sua idea di letteratura e di ragione di reggere all’urto della realtà, di rintracciare il disegno, di uscire dal labirinto? I suoi personaggi affronteranno ciascuno la propria avventura, andando incontro a frustrazioni, come Marcovaldo, che tenta invano una vita dignitosamente umana, in un mondo alienato di motori e macchine; crisi di nervi, come Palomar, che tenta di conoscere invano una singola onda di mare; crisi esistenziali come quella di Amerigo Ormea, lo scrutatore che si imbatte nella sconcertante realtà del Cottolengo; cocenti delusioni amorose, come Rambaldo che insegue Bradamante e Bradamante che insegue Agilulfo; crisi di identità come quella del Cavaliere inesistente; paradossali risoluzioni esistenziali come quella di Cosimo, il Barone Rampante, che decide di vivere per sempre sugli alberi senza toccare mai più terra.
Sono i mille tentativi con cui Calvino ha incarnato il grande tentativo, l’unico per cui ha sentito che valesse la pena di vivere: “L’universo – scrive in Lezione americane – si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice di entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente di cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo. La poesia è la grande nemica del caso, pur essendo anch’essa figlia del caso e sapendo che il caso in ultima istanza avrà partita vinta”. Una sfida quindi estrema (forse perduta in partenza?), ma irrinunciabile, alla quale l’uomo non si può e non si vuole sottrarre.
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