Aleksandrovka Vilcha: è il nome della località, nella regione di Gomel, al confine tra Ucraina e Bielorussia, dove stamane si incontreranno una delegazione ucraina e una russa. È la prima, fioca possibilità di un accordo tra Kiev e Mosca. Il tentativo viene fatto senza nessun cessate il fuoco. Ieri il bilancio delle vittime dichiarate da Kiev parlava di 352 civili uccisi, tra i quali 14 bambini.



Secondo Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale nell’Università La Sapienza di Roma, “i margini per una trattativa rimangono stretti. È possibile che lo status di Paese neutrale” ipotizzato dal governo ucraino “possa essere risolutivo” spiega il giurista, ma solo se internazionalmente garantito. Tutte le condizioni che hanno portato al negoziato potrebbero però mutare molto rapidamente.



A che cosa si deve questo primo risultato?

Verosimilmente, la disponibilità russa a una trattativa deriva da un complesso di situazioni, fra le quali vi è certamente la risposta della comunità internazionale, ma anche il mancato sfondamento, almeno per ora, del fronte di difesa ucraina. E la disponibilità ucraina è verosimilmente dettata dal timore, di senso inverso, che un’intensificazione dell’azione militare russa possa alterare lo stallo degli ultimi due giorni e condurre verso un epilogo drammatico.

Dunque l’accettazione di una prospettiva negoziale potrebbe essere più il frutto delle rispettive debolezze?



Direi di sì. È comunque importante che i colloqui abbiano inizio e proseguano. Tuttavia i margini per una trattativa rimangono, per ora, stretti.

Perché?

È difficile che la Russia, a solo tre giorni dall’inizio dell’invasione, si accontenti delle assicurazioni ucraine di non legarsi all’Occidente politico, o di concessioni sull’autonomia dei territori abitati da popolazioni russofone.

E l’Ucraina?

Ha mostrato un’inaspettata solidità militare e può contare su ingenti forniture di armi intelligenti, ma è difficile che possa concedere più di quanto detto. Le cose potrebbero però mutare anche rapidamente in relazione a una serie di eventi.

A che cosa pensa?

Innanzitutto, la situazione sul terreno potrebbe volgere a favore dell’uno o dell’altro contendente. In secondo luogo, gli alleati della prima ora della Russia, la Cina in primis, potrebbero considerare eccessivamente costoso il sostegno a un’avventura militare priva di un obiettivo chiaro e che prelude a una gelata della cooperazione economica internazionale. Infine, l’opinione pubblica russa, pur ben controllata dal proprio regime autocratico, potrebbe avvertire tutti i rischi di un ritorno a un isolamento politico ed economico che sembrava appartenere al passato.

Due giorni fa dal governo ucraino è stata fatta filtrare un’ipotesi di neutralità. Non sappiamo se tale ipotesi esista ancora. La ritiene percorribile e auspicabile?

È possibile che lo status di neutralizzazione possa essere risolutivo. Sarebbe un impedimento all’adesione dell’Ucraina alla Nato e, più in generale, alla possibilità di adottare misure che possano favorire un blocco militare rispetto a un altro. Dovrebbe trattarsi, però, al fine di essere effettivo, di uno status internazionalmente garantito. Tale status non impedirebbe all’Ucraina di proseguire nel processo di occidentalizzazione politica ed economica, e potrebbe realizzare le garanzie di sicurezza richieste dalla Russia, senza impedire la collocazione economica e sociale dell’Ucraina nell’Europa occidentale, che sembra un’irrinunciabile ambizione della società ucraina.   

E rispetto ad un accordo di mutua difesa fra i Paesi della Nato e l’Ucraina, sulla falsariga di quanto ha fatto la Federazione Russa nel 2002 con cinque repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale?

Resto dell’avviso che sarebbe preferibile la neutralità.

Nel suo discorso del 21 febbraio Putin adduce, a giustificazione della volontà di opporsi alla Nato, le promesse tradite del 1990. Qual è il valore di questo richiamo storico? C’è chi dice che è inutilizzabile perché quella era un’altra era geopolitica. Che ne pensa?

Il richiamo a un tacito riconoscimento di un diritto russo a mantenere una sorta di  protettorato sui Paesi dell’Est europeo è inaccettabile, sia giuridicamente che eticamente. È difficile negare a un popolo il diritto di scegliere il proprio assetto economico, sociale o culturale in nome di esigenze geopolitiche. Fatta questa premessa, va detto che gli Stati occidentali hanno maneggiato con molta imprudenza la volontà degli Stati appartenenti al blocco socialista di buttarsi alle spalle l’isolamento al quale erano stati condannati dalle tensioni geopolitiche del dopoguerra, dalla divisione del mondo in blocchi e dalla separazione artificiale fra popoli europei caratterizzati da una storia comune.

Putin cita cinque “ondate” di espansione della Nato verso Est. È un periodo che va dal 1999 (ex paesi del Patto di Varsavia) al 2020 (Macedonia del Nord). Qual è il significato sostanziale, oggi, di tale processo?

Questa è, appunto, la prova dell’imprudente politica di allargamento del blocco occidentale dopo la caduta dell’impero sovietico: una politica che ha causato forti tensioni, sia interne che internazionali e che non ha certamente incrementato la sicurezza nel continente europeo. Non solo. Tale corsa all’occidentalizzazione a tappe forzate degli Stati dell’Est europeo ha prodotto anche gravi scompensi politici.

A cosa si riferisce?

All’avvento di regimi autocratici che mal si conciliano con il patrimonio dei valori costituzionali della democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali, che costituiscono patrimonio comune dei processi di integrazione europea.

A Minsk furono firmati gli accordi del 2014 e poi del 2015. Cosa prevedevano, chi li ha disattesi e perché?

Gli accordi di Minsk sono stati disattesi da tutte le parti in causa, inclusa l’Ucraina. A parte gli obblighi di carattere contingente, i punti 11 e 12 di tali accordi pongono l’obbligo di assicurare forme avanzate di autonomia e di autogoverno alle popolazioni di etnia russa nell’Est del Paese. Proprio l’esistenza di forti meccanismi di autonomia è l’elemento che può scongiurare rivendicazioni di autonomia da parte di minoranze che pongono spesso una minaccia alla stabilità internazionale e non sono sorrette dal diritto. È difficile però realizzare unilateralmente tali obiettivi senza la cooperazione di tutte le parti in causa, inclusi le minoranze interessate e i loro “protettori” internazionali. Ma certamente, un maggiore sforzo da parte ucraina avrebbe agevolato tale processo e disinnescato una delle maggiori fonti di tensione nell’area.

Quello dei territori dell’Est Ucraina e delle nuove Repubbliche riconosciute da Mosca è un problema superato dagli eventi o potrebbe ancora avere un ruolo nella soluzione? A quali condizioni?

Come ho accennato in una precedente intervista, il riconoscimento da parte russa delle due repubbliche sembrava preludere a un intervento limitato in tali aree, al fine di distaccarle dallo Stato ucraino e iniziare un processo di annessione, simile a quello seguito qualche anno prima in Crimea. Ma è difficile ritenere che un attacco portato alla capitale dell’Ucraina, a centinaia di chilometri dalle aree contese, sia funzionale a difendere tali entità.

Quindi?

Ritengo che l’azione militare russa vada qualificata come una vera e propria guerra di aggressione, ispirata da considerazioni esclusivamente geopolitiche e non giustificabile sulla base della volontà di assicurare esigenze umanitarie o di difesa delle minoranze russe. L’ultima volta che il mondo ha assistito a una situazione di questo tipo è stato nel 1990, con l’invasione e l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nella prima guerra del Golfo. È francamente sconcertante che essa venga riproposta trent’anni dopo nel cuore dell’Europa.

L’intervento di Putin in Ucraina e quello della Nato in Kosovo. Non le pare che siano i rapporti di forza a decidere che cosa è lecito e che cosa non lo è?

Sul punto sono un po’ più ottimista rispetto al pessimismo che ispira la sua domanda. A dispetto delle differenze fra le vicende che li hanno occasionati, i due interventi hanno in comune il carattere dell’illiceità. Ambedue sono interventi unilaterali, privi di una plausibile giustificazione e ispirati, pur se in misura diversa, da una logica geopolitica. Entrambi sono stati giustamente stigmatizzati come tali dalla comunità internazionale. Nel caso del Kosovo, il blocco occidentale, che ha ideato e realizzato l’azione militare, ha pagato, anche duramente, i costi non solo economici, ma soprattutto politici dell’intervento, che non ha certo contribuito a stemperare le tensioni e a ripristinare una situazione di cooperazione nell’area.

Quanto all’Ucraina?

Mi auguro che ciò accada anche nel caso dell’intervento in Ucraina e che la Russia non ricavi vantaggi dall’uso della forza. Ciò confermerebbe che questo nostro mondo è troppo complesso per poter essere governato con la logica della forza. E questo epilogo rafforzerebbe, invece che indebolire, l’autorità del divieto di uso della forza.

(Federico Ferraù) 

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