Secondo i dati Istat, la fase espansiva dell’occupazione in Italia iniziata nel 2021 si è consolidata al primo febbraio 2025 con oltre 24 milioni di occupati, il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è arrivato al 63% e la disoccupazione è scesa al 5,9% come nel 2007, anno precedente alla crisi finanziaria mondiale (denominata crisi dei subprime) che ha causato il calo dei prezzi in borsa e il fallimento di diversi istituti finanziari, oltre a moltissimi licenziamenti in tutto il mondo.
Partire da questi dati è molto importante perché creare lavoro, stabile e di qualità attraverso investimenti pubblici e privati è la priorità di ogni Governo. Ma per mantenere questi livelli occupazionali, oltre a valorizzare il turismo, il commercio e i servizi, servono politiche industriali capaci di aiutare la nostra manifattura a competere sulla qualità e sul costo del prodotto.
Per questo serve rilanciare il connubio tra impresa 4.0 e la sostenibilità, cioè la digitalizzazione dei processi produttivi e lo sviluppo futuro sempre più sostenibile, come nella proposta di Draghi sulla competitività europea e quella della Commissione sul Clean industrial deal, e certamente, non serve la dannosa e acclamata “decrescita felice” del decennio scorso e i continui “no” sempre e dovunque come il no al Tap e alla Tav.
A settembre del 2024 Mario Draghi ha presentato un documento sul futuro della competitività europea, commissionato dalla Commissione europea, proponendo strategie per migliorare la produttività e affrontare le transizioni digitali, energetiche e geopolitiche. L’Ue ha una crescita economica inferiore rispetto agli Stati Uniti e Cina, principalmente a causa della bassa produttività e i fattori che hanno inasprito la situazione sono la perdita del commercio globale, la crisi energetica dopo l’invasione della Ucraina da parte della Russia e il mutato scenario geopolitico che riduce la dipendenza dagli Usa per la sicurezza.
Gli obiettivi della proposta di Draghi sono colmare il divario di innovazione e investire in tecnologie avanzate (IA, semiconduttori, cloud e il finanziamento delle start-up), la riduzione dei prezzi energetici con l’aumento della produzione di energia pulita (compreso l’utilizzo del nucleare sostenibile e da fusione), aumentare la spesa per la difesa e maggiore coordinamento tra politiche industriali, energetiche e di sicurezza.
Il tutto con un finanziamento che si aggira sugli 800 miliardi di euro, gli stessi finanziamenti che la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha proposto e fatto approvare il 6 marzo dal Consiglio dei capi di Stato e di governo per potenziare la Difesa comune europea (ReArm Europe), per poter essere garante di pace.
Nei mesi scorsi la Commissione ha dato il via libera al Clean industrial deal (il patto per l’impresa pulita) con l’obiettivo di diventare un’economia decarbonizzata entro la fine del 2050, una strategia che dovrebbe accelerare la decarbonizzazione dell’industria manifatturiera e della produzione di tecnologie pulite in Europa. La proposta punterà ad aumentare la domanda di prodotti puliti prodotti nell’Ue con un’etichetta volontaria sull’intensità di carbonio per i prodotti industriali, a partire dall’acciaio nel 2025, seguito dal cemento.
Nel breve termine il Clean industrial deal rafforzerà il Fondo per l’innovazione e verrà proposta una Banca per la decarbonizzazione industriale, con l’obiettivo di raccogliere cento miliardi di euro di finanziamenti, attingendo a fondi disponibili e ricavi del sistema Ets; inoltre, la Commissione adotterà un nuovo quadro per gli aiuti di Stato per raggiungere gli obiettivi di un’economia europea decarbonizzata.
Quando Ursula von der Leyen si è insediata nel 2019 a Presidente della Commissione europea, uno dei primi dati che ha ricevuto è stato quello riferito alle oltre 350.000 morti nei 27 Paesi dell’Ue causate dall’inquinamento.
A partire da questi dati l’anno dopo è nato il Green Deal con la rendicontazione sulla sostenibilità di tutta la filiera produttiva (diritti dei lavoratori, salute e sicurezza, no all’inquinamento interno ma anche all’esterno delle attività produttive) per circa 50.000 imprese europee. Invece con il Clean industrial deal dal sistema della rendicontazione escono 40.000 imprese il 90% delle Pmi (perché inquinano solo per l’1%).
Ma nonostante questo cambiamento di rotta sulla sostenibilità produttiva i Ceo delle case automobilistiche saranno costretti a pagare la multa di 16 miliardi di euro, così come definito dall’ingombrante Green Deal, per non aver raggiunto l’obiettivo del superamento produttivo dell’auto elettrica sull’auto termica, per la loro non conformità con gli obiettivi di CO2 del 2025 e per rispondere ai propri azionisti ridurranno i costi aziendali con il taglio di oltre due milioni di veicoli endotermici, con la chiusura di stabilimenti e la perdita di migliaia di posti di lavoro.
Anche l’introduzione dei dazi da parte del Governo americano (al momento sospesi fino a luglio) rischia di destabilizzare il commercio mondiale e di conseguenza il lavoro e l’occupazione. Le barriere tariffarie introdotte unilateralmente sono in genere percepite come aggressive da chi le subisce provocando tensioni di carattere politico e riducendo la cooperazione in altri ambiti.
Nella fase attuale, invece, una maggiore cooperazione tra i Paesi potrebbe aiutare a trovare una soluzione politica alle crisi in Ucraina, in Medio Oriente e nelle altre 54 guerre presenti nel mondo. Non a caso l’Europa sta costruendo un libero scambio con l’India, che va dalla difesa alla lotta al terrorismo, dallo spazio ai settori industriali come l’automotive e la farmaceutica.
Il mercato del lavoro in Europa è in continua trasformazione a causa delle transizioni green, digitali e demografica. Nel prossimo futuro l’evoluzione tecnologica, quella connessa all’intelligenza artificiale e ai big data, alle reti e alla sicurezza informatica ed energetica, alla robotica e automazione, allo stoccaggio e distribuzione dell’energia avranno un effetto differente sulle professioni, guidando sia i ruoli in rapida crescita che quelli in declino e alimentando la domanda di competenze connessa alla tecnologia che saranno le competenze in rapida crescita.
Per questo è importante che le parti sociali collaborino per anticipare il cambiamento e garantire che i lavoratori ricevano un’adeguata formazione.
La pandemia, la guerra in Europa, in Medio Oriente e in altri Paesi del mondo, la crisi climatica, ambientale e demografica, le misure protezionistiche con l’introduzione dei dazi da parte degli Stati Uniti e la necessità di rivedere i nostri modelli di sviluppo sono situazioni per molti aspetti inimmaginabili e contraddittori fino a pochi anni fa.
Questo contesto complicato e globale ha reso più evidenti e importanti alcuni temi: il legame tra i popoli è divenuto sempre più stretto e i problemi, su scala mondiale, come le guerre e le migrazioni (accoglienza e integrazione) non fanno che ribadire ciò che più volte ci ha ricordato il Santo Padre: “Ci si salva solo tutti insieme”.
La seconda questione altrettanto dirimente è la centralità che il valore del lavoro assume ancor di più nella vita delle persone e nell’economia, dove il lavoro deve essere ripensato non solo come mezzo di sussistenza o di mera produzione, ma anche come realizzazione della persona e dello sviluppo sociale.
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