Lo sgombero della Columbia University occupata dagli studenti pro-palestinesi e il sostanziale fallimento dell’ultimo tentativo Usa di imporre il cessate il fuoco a Gaza sembrano precipitare la presidenza Biden in una crisi ai limiti dell’irreversibile (nelle ultime ore si è aggiunta anche la gelata della Fed sui preannunci di taglio dei tassi prima delle presidenziali di novembre). È parso più che simbolico che il newyorchese Donald Trump – in una pausa del processo in corso a suo carico poco lontano a Manhattan – abbia subito salutato come “un bello spettacolo” l’irruzione degli agenti Nypd in tenuta antisommossa alla Columbia, storico bastione dem/liberal.
Pochi giorni fa era stato lo Speaker della Camera, il repubblicano Michael Johnson, a sollecitare con durezza la “fine della ricreazione” sul prato del campus, trasformato in tendopoli anti-israeliana. A compiere il lavoro sporco – su richiesta della rettrice Minouche Shafik, “grigliata” dai repubblicani al Congresso e premuta dai grandi donatori israeliti – è stato comunque il sindaco Eric Adams: ex capitano afro del Police Department, simbolo dell’irrducibilità dem della Grande Mela. Varie “sconfitte nella sconfitta” per l’establishment dem della East Coast, in cui la componente intellettuale ebraica rimane maggioritaria, non essendolo però più a livello nazionale, a cominciare da Wall Street. Qui, fin dal 2016, è cresciuto il sostegno alla destra trumpiana, legata a doppio filo con la destra al governo a Gerusalemme. E il premier Bibi Netanyahu sta vedendo ora aumentare la chance di poter arrivare in carica al primo martedì di novembre, quando alla Casa Bianca potrebbe tornare il suo “amico” Trump.
È quindi comprensibile la paralisi attonita del New York Times: che ha il suo quartier generale a un miglio dalla Columbia e che annovera da sempre fra i suoi giornalisti e opinionisti decine di laureati e docenti del campus. Ma tenere assieme la proprietà israelita e il Dna liberal – incarnato da sempre nel free speech della Columbia – si sta rivelando una sfida ai limiti dell’impossibile anche per la “Signora in Grigio”. Che dopo essersi ridotta per giorni al puro stillicidio del notiziario – condito di pensosi appelli mediatori – poche ore dopo la doppia disfatta è corsa a mettere in home un commento dal titolo poco equivocabile: “Biden così non vince”.
Il Nyt è da anni l’organo ufficiale dell’antitrumpismo, ma il parallelo con il disastro del 1968 si sta facendo troppo inquietante. Allora il presidente Lyndon Johnson fu costretto a non ricandidarsi dagli studenti in marcia contro la guerra in Vietnam (Columbia in prima fila, anche allora con occupazioni, sgomberi e arresti). Le residue speranze di tenere la Casa Bianca contrastando Richard Nixon furono sepolte dai violenti disordini attorno alla convention “dem” di Chicago, dove 56 anni dopo è in programma la ri-nomination di Biden, il prossimo agosto.
È certo ancora presto per dare per spacciato il presidente dem, che tuttavia è sempre dietro Trump nei sondaggi e su Gaza & Columbia rischia di perdere consensi importanti nell’elettorato giovanile e nelle minoranze diverse da quella ebraica (a cominciare dagli americani arabi/islamici). Nel contesto venutosi a creare appare più incerto anche l’effetto dell’offensiva giudiziaria contro Trump: di fatto la vera “arma speciale” su cui conta Biden. Non sorprende quindi il ritorno degli appelli al presidente perché si faccia da parte, sebbene il fatto stesso che sui media che lo supportano se ne ridiscuta a sei mesi dal voto è segno di quasi-panico nel campo dem.
Nel frattempo l’ennesima svolta fra Washington e Gerusalemme (senza dimenticare il fronte russo-ucraino) non sembra priva di echi diretti in Italia, uno dei Paesi europei dove fra cinque settimane si vota per il parlamento Ue. Sia il Governo Merloni che la Presidenza della Repubblica non paiono immuni da riflessi dalla “crisi Biden”. Soprattutto la posizione di Sergio Mattarella si presta anzitutto a qualche considerazione di fatto.
“Dem” e cattolico come Biden – benché la Casa Bianca sia al vertice del potere esecutivo Usa, a differenza del Quirinale in Italia – Mattarella aveva assunto una postura “forte e chiara” a favore della libertà di manifestazione pro-palestinese. È avvenuto dopo gli scontri di Pisa, quando cortei studenteschi – diretti fra l’altro contro “luoghi sensibili” per la comunità ebraica – sono stati repressi a manganellate dalle forze dell’ordine. Il Quirinale è intervenuto subito in modo energico sul ministro dell’Interno Piantedosi (e gli echi di quella reprimenda si sono avvertiti ancora nelle ultime ore con la rimozione del questore di Pisa).
È stato comunque così che, nelle settimane seguenti, la polizia si è ritirata a bordo campo e nelle università italiane le proteste anti-israeliane sono andate in escalation. E un mese prima che gli studenti della Columbia occupassero lo storico Hamilton Building, quelli dell’università di Torino sono entrati a forza nel loro rettorato. Qui era in corso una riunione del Senato accademico e i manifestanti hanno preteso – e ottenuto – l’immediata rottura degli accordi di cooperazione con gli atenei israeliani. A Napoli, invece, è stato impedito di parlare sulla crisi di Gaza al direttore (israelita) di Repubblica, Maurizio Molinari. Nei cortei fra Milano e Roma oltre alla premier Meloni è stata contestata la senatrice a vita Liliana Segre, testimone della Shoah (e per questo nominata da Mattarella).
In questa cornice – di università statali, a differenza di Columbia e delle sue sorelle – nessun ateneo è stato però oggetto di occupazioni “pesanti” e quindi di sgomberi con arresti fra gli studenti manifestanti. Nessun rettore ha chiamato la polizia per interventi simili a quelli di New York, Austin e Los Angeles. Nessun rettore ha pensato d’altronde di dimettersi per protesta contro i disordini, né è stato oggetto di contestazioni o inviti alle dimissioni (dai diversi fronti accademici, mediatici, politici) per aver lasciato svolgere le manifestazioni anti-israeliane. Il ministro per l’Università, Bernini, ha promesso vigilanza, ma ha avuto buon gioco nell’allinearsi con la premier in un silenzio-assenso rispetto all’indicazione perentoria del Quirinale in nome della libertà costituzionale di pensiero, parola e manifestazione pacifica (indicazione poi appena temperata da qualche parola contro gli “eccessi intolleranti”).
L’atteggiamento del Quirinale non è andato a toccare la posizione di politica estera del Governo, che resta allineata con quella della Ue e soprattutto degli Usa di Biden.
Quindi il cessate il fuoco a Gaza (e il sostegno umanitario ai palestinesi) resta l’obiettivo dell’offensiva diplomatica occidentale, senza però dimenticare il 7 ottobre; senza disattenzioni per la minaccia di Hamas (e dell’Iran) e con la conferma del riconoscimento di base allo Stato ebraico ad agire per la sicurezza della propria democrazia.
Le mosse del Quirinale “libertario”, dal canto loro, hanno di fatto depotenziato quelle delle comunità ebraica italiana e dello stesso Pd. L’Ucei ha naturalmente espresso con ogni mezzo la sua preoccupazione per il ritorno di ombre antisemite dietro le proteste antisioniste: lo stesso argomento con cui gli israeliti Usa hanno chiamato e giustificato gli sgomberi nei campus e – ancora lo scorso dicembre – la rimozione delle rettrici di Harvard e Penn. A New York come a Roma è stato poi brandita un’altra denuncia: quella per la sicurezza degli studenti ebrei (anche se alla Columbia si sono uniti alle proteste anche giovani israeliti e alla Ucla si sono registrati anche scontri fra studenti filopalestinesi e filoisraeliani).
Il Pd di Elly Schlein – passaporto Usa e padre politologo ebreo del New Jersey, attivista radicale e pacifista negli anni 60 – ha mantenuto finora un profilo basso su un fronte universitario che appare parte del suo elettorato, pur sotto pressione da parte di M5s, nettamente “pacifista” su Gaza come sull’Ucraina. La leader “dem” – in campo direttamente il 9 giugno – appare in ogni caso cauta, fra l’altro, di fronte al rischio di sbilanciamenti. Di mosse problematiche verso il suo elettorato cattolico (di sensibilità pacifista, incarnata nelle liste dem dall’ex direttore di Avvenire, Marco Tarquinio); oppure verso la comunità ebraica nazionale e internazionale (qui il sostegno a Gerusalemme resta maggioritario, benché la senatrice Segre – icona del centrosinistra in trincea permanente contro l”odio nero” – abbia avuto espressioni di misurata dissociazione dal governo Netanyahu).
Se per la premier Meloni la prospettiva di impatto diretto del caso Columbia resta limitato (quindi anche verso la scadenza elettorale), qualche rischio in più si presenta sul fronte diplomatico e geopolitico. Non c’è dubbio che la linearità della fedeltà alla Nato e Usa sia stata importante nell’ascesa elettorale di FdI e quindi nella relativa stabilità del governo Meloni per 18 mesi. La stessa premier – che è stata ricevuta alla Casa Bianca lo scorso marzo e dopo il voto Ue ospiterà Biden e gli altri leader G7 in Italia – ha ricevuto più di un segnale di apprezzamento non preventivato da commentatori più o meno vicini all’amministrazione americana. Appare quindi lecito chiedersi se un’eventuale sconfitta di Biden in novembre sarebbe foriera di instabilità per il Governo italiano; ma lo sarebbe per tutti i governi Ue (che già in luglio avrà un nuovo organigramma). E poi – com’è successo anche nel quadriennio del Trump 1 – un presidente eletto (o addirittura rieletto) difficilmente rimane fedele al candidato in campagna. E soprattutto in politica estera contano molto le dinamiche diplomatiche di medio periodo. Un Trump 2 si profila certamente “di rottura”, ma – a rigore – come superamento di una situazione geopolitica resa molto instabile dalle scelte di Biden (esattamente come era avvenuto negli otto anni di Barack Obama).
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