Si può far profitto anche rispettando la legge. Meglio, si deve far profitto rispettando la legge. Ancora di più, si fa un buon profitto solo rispettando la legge. Questo crescendo di affermazioni anima il premio “Legalità e Profitto” organizzato dal gruppo editoriale Economy e giunto con successo alla sua seconda edizione.



A riceverlo, cento imprese che presentano bilanci in utile e che si sono volontariamente sottoposte al rating di legalità che valuta il rispetto di tutte le regole che sovrintendono alla loro attività. Imprese che rispettano i codici, i concorrenti, i collaboratori e con le quali e nelle quali è piacevole lavorare.



Sarebbe bello che fossero tutte così, le imprese, ma così non è. Ed è tuttavia rassicurante che un numero sempre crescente affronti il verdetto del test diventando testimoni di comportamenti virtuosi e risultati soddisfacenti. Il buon esempio può essere contagioso ed è quello che l’iniziativa intende diffondere.

Bene. Gli autorevoli relatori che hanno preso parte alla giornata del conferimento dell’attestato hanno messo in evidenza come un percorso del genere incentivi il merito e quindi la voglia d’impegnarsi, soprattutto nei giovani, perché si conquista la certezza che gli sforzi compiuti o da compiere non andranno dispersi.



Rovesciando il noto principio economico della moneta cattiva che scaccia quella buona, nel nostro caso l’impresa buona potrà scacciare quella cattiva a beneficio dell’intera comunità. A patto che sia messa nelle condizioni di preferirlo, però. Non si può contare sull’animo buono dell’imprenditore, ma sul suo interesse.

E qui è stato efficacemente tirato in ballo Winston Churchill con un suo famoso aforisma: Molte persone vedono l’impresa privata come una tigre feroce, da uccidere subito. Altre invece come una mucca da mungere. Pochissime la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che, in silenzio, traina un pesante carro.

Meglio non si potrebbe dire. Che cosa deve fare lo Stato per agevolare il tranquillo cammino del cavallo robusto? Deve venirgli in soccorso, è stato suggerito, quando comincia a zoppicare o rischia di stramazzare al suolo. Deve approntare, cioè, una serie di misure per mantenerlo in vita e capace di trainare il suo fardello.

Inevitabile il paragone con l’America dove il fallimento non è visto come un marchio d’infamia e le imprese sono sempre messe nelle condizioni di riprendersi. Campanello d’allarme. Occorre intendersi. Nonostante il recente pesante ingresso del pubblico nel privato, i principi che regolano quella società non possono essere fraintesi.

In America fallire non è un dramma (se come conseguenza di accidenti di mercato e non di ruberie) e infatti gli imprenditori sono indotti a mollare le attività che non promettono di andar bene per indirizzare altrove le proprie finanze (o quelle prese a prestito) e i propri sforzi alla ricerca del business più promettente.

La massiccia immissione di risorse da parte dello Stato non cambia questo sistema che resta lontanissimo da quello italiano nonostante i molti e apprezzabili tentativi di attenuare le conseguenze della cattiva sorte aziendale. Le resistenze psicologiche, le scorie giuridiche e la prassi giudiziaria non aiutano certo.

E non sono da incoraggiare nemmeno azioni che mirino alla sopravvivenza di realtà mal gestite o bocciate dai consumatori per l’inadeguatezza dei prodotti. Il segreto è lasciar andare ciò che non va, senza farne un dramma, evitando di alimentarlo artificialmente con gran dispendio di risorse che vanno perdute.

Piuttosto, si apra davvero quella stagione di riforme diretta a modernizzare il Paese – come ci chiedono anche i partner europei che per questo ci hanno concesso i 200 miliardi del Pnrr – spianando la strada al cavallo che troverà da sé la strada migliore per raggiungere la meta di un maggior benessere per tutti.

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