Sono anch’io fra coloro che, amaramente, dichiarano che questo esame di Stato va cambiato. È anche tardivo, visto che in molti paesi l’esame conclusivo si affronta un anno prima che nel nostro, talora, per i respinti in più anni, anche con due o tre anni di ritardo. L’episodio delle ragazze del Liceo classico Foscarini, sicuramente degno di nota, ma anche ben orchestrato dalla stampa, ha segnalato una clamorosa differenza fra le valutazioni dei docenti che fino a quel momento avevano valutato le ragazze e la valutazione del commissario esterno. Grinta, ribellione, mutismo oppositivo all’esame sono stati gli atteggiamenti delle studentesse. Molti, anche fra gli addetti ai lavori, si sono schierati con le maturande. Sulla stampa sono prevalsi, mi sembra, i sostenitori delle ragazze, eccessivamente penalizzate dal rigore dell’esaminatore esterno, speriamo non dal suo desiderio di rivincita rispetto a qualche collega altrettanto rigoroso. A dirlo ci penseranno gli ispettori.
Ci sono ancora, lo si vede anche dalle pagine del Sussidiario, i difensori di questa formula di esame; coloro che hanno visto fiorire i propri studenti, che hanno avuto l’occasione di confrontarsi con colleghi disponibili ad enfatizzare il lavoro svolto, a guardare lo studente (o la studentessa) in una prospettiva di valorizzazione dell’istituto e del singolo studente, ammesso – lo si ricordi – dal proprio consiglio di classe perché ritenuto idoneo a svolgere la prova.
Attorno agli estimatori dell’attuale formula va ricordato il rito dei giornalisti nostalgici dei propri esami o dei cronisti sentimentali che ancora parlano di lacrime e fiori alla conclusione del colloquio. Ci sono anche, e nella mia esperienza sono i più, coloro che sono usciti dalle liturgie dell’esame non solo stanchi, ma frustrati, delusi, amareggiati dagli esiti e pure dalla fatica del lavoro condiviso. Va d’altra parte ricordato che il docente italiano ha pochissime occasioni di lavorare in team fianco a fianco dei colleghi, soprattutto nella fase della valutazione.
Chiediamoci cosa sia davvero l’esame, etimologicamente, una pesatura con l’ago della bilancia. 40 punti massimi di credito, 20 per ciascuna prova di esame (i due scritti e l’orale) un tentativo equilibrato del legislatore di soppesare il curriculum dello studente con le sue capacità di confrontarsi con prove nazionali, corrette al 50% da un docente sconosciuto e da un colloquio con una struttura, sì definita dall’ordinanza ministeriale, ma di fatto lasciata molto alle decisioni della commissione e alla regia, buona o cattiva, del presidente.
Alcune precisazioni doverose. Di norma, se la prova scritta è corretta dal docente commissario cosiddetto interno, dovrebbe (ma inevitabilmente non sempre accade) confermare la valutazione dello scrutinio di fine anno; mentre la prova affidata all’esterno è la più rischiosa, quella in cui le valutazioni divergono, talora in modo clamoroso, dal voto di ammissione (come nel caso veneziano). In Italia si fatica da sempre d’altra parte a trovare strumenti e criteri di valutazione oggettivi e quindi condivisi.
Veniamo all’orale. Dovrebbe trattarsi di colloquio, cioè di un “parlare insieme”, tra adulti maggiorenni, verificando sì i contenuti e metodi delle discipline, ma guardando anche alla personalità dello studente, con una commissione tesa a cogliere il livello di “maturità”, attraversando le discipline a partire da un tema proposto dalla Commissione stessa, ma trattando anche di educazione civica, del percorso PCTO, di orientamento; quest’anno addirittura del capolavoro dello studente. Eppure in molte occasioni il colloquio si traduce in un’interrogazione/confessione one to one con una valutazione conclusiva che deriva dalla media delle singole proposte. Palese, tra l’altro, che questo modello più individualistico abbia la meglio negli indirizzi tecnico-scientifici, dove più difficile per i singoli docenti è avere le competenze che consentano di dare una valutazione collegiale equilibrata.
In sintesi: è un assessment con tutti i rischi che questo comporta? Paragonabile cioè a una prova puntuale, a un esame di guida, a una prova di conseguimento di qualsiasi brevetto, a un test universitario? O piuttosto è una evaluation, una prova cioè che tenga conto dell’intero percorso, delle caratteristiche del singolo, non solo delle cognitive skills, ma anche delle no cognitive, in una prospettiva di valorizzazione del lavoro fin qui svolto?
Bisognerebbe finalmente de-cidere: la sovrapposizione dei due modelli non funziona. Accanto alle poche esperienze sicuramente positive (Il Corriere della Sera celebra ancora il grande successo del Liceo classico del centro città con tanti 100 e lode), l’esame lascia spesso, a fronte di tanto lavoro, molto malumore e tanto scontento, sia tra i docenti che soprattutto tra gli studenti più fragili. Quelli che hanno fatto un percorso, per loro molto impegnativo, ma che spesso non hanno alle spalle quelle soft skills che consentano di affrontare l’ignoto con la sufficiente disinvoltura. Quelli, tra l’altro, per i quali l’ennesima delusione può pesare moltissimo nell’autostima e quindi nelle scelte future, quelli che non hanno alle spalle nessun adulto che li guardi con uno sguardo di stima.
Gli altri, quelli con l’iscrizione nell’università prestigiosa all’estero, per lo più prendono un buon voto e comunque, anche nel caso di un esame deludente, troveranno altre occasioni di riscatto e avranno comunque una confort-zone di riferimento, eventualmente anche l’avvocato pronto al ricorso.
Una proposta semplice-semplice, volutamente un po’ provocatoria: prove INVALSI valutate in tempo utile con sistemi oggettivi e un colloquio (vero!) con commissione interna e presidente esterno con funzioni notarili.
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