La combinazione vincente del nuovo piano vaccini? Sessanta milioni di dosi, 700mila somministrazioni al giorno, 40mila abitanti per ogni punto vaccinale, 90mila infermieri vaccinatori, 1,4 miliardi di euro per acquistare i vaccini. Sta in questi cinque numeri la scommessa del governo Draghi e del commissario Figliuolo per vincere la partita più importante del 2021: arrivare all’immunità di gregge entro la fine di giugno, condizione essenziale per poter riavviare la macchina della ripresa economica.
Oltre ai numeri, la decisione di far viaggiare il piano un doppio binario: da un lato, i vaccini Pfizer e Moderna saranno riservati agli over 80 e alle categorie più fragili (sono 14, dai malati oncologici ai gravemente obesi); dall’altro, AstraZeneca e Janssen andranno ai lavoratori delle categorie a rischio e alle persone anziane fino a 79 anni ma in buona salute.
L’obiettivo di Draghi, ormai non più nascosto, è ambizioso, ma non impossibile: arrivare a somministrare 60 milioni di dosi nei prossimi tre mesi, cioè poco meno di 15 milioni con la doppia inoculazione e altri 30 milioni con una singola iniezione, garantendo così una protezione parziale a 45 milioni di italiani. Immunizzando tre quarti della popolazione, ci si avvicinerebbe molto a quell’80% di vaccinati che significherebbe tagliare il traguardo dell’immunità di gregge: oggi l’asticella è posta più in alto (prima sarebbe bastato anche il 70%) a causa della presenza della variante inglese, più contagiosa del vecchio ceppo originario di Wuhan.
Da giorni, sotto la supervisione dello stesso presidente del Consiglio, il commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, il generale Francesco Figliuolo, d’intesa con il capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, e con i ministri Gelmini e Speranza, sta lavorando all’implementazione del nuovo piano vaccini, che lentamente acquista una sua fisionomia. A grandi linee, l’impianto è delineato, per completare il puzzle mancano due tessere delicate.
La prima, esogena, dipende dalla reale disponibilità dei vaccini. Domani l’Ema, salvo sorprese, dovrebbe approvare il vaccino Janssen della Johnson&Johnson, che ha però già fatto sapere che difficilmente potrà far fronte alle prime consegne di vaccini alla Ue concordate per il secondo trimestre. Ma dopo i tagli alle forniture dei primi due mesi operati da Pfizer e AstraZeneca e soprattutto dopo il duro intervento di Draghi contro il mancato rispetto degli accordi e il blocco dell’export di dosi verso l’Australia, per le aziende farmaceutiche sarà più difficile fare scherzi. Da più parti, poi, arriva la conferma che dopo Pasqua sono attese dosi di vaccini in grande quantità (55 milioni nel secondo trimestre). Ecco perché sulle misure restrittive da adottare per fermare la terza ondata di contagi Draghi sembra incurante di marcare una discontinuità con il governo precedente. Il suo intento, e su questo ha coinvolto tutto il governo e i soggetti interessati, è impiegare questo tempo di sacrifici e di lockdown mirati per mettere a punto la macchina della campagna vaccinale, che da aprile dovrà funzionare a pieno regime, senza battere in testa.
Il secondo tassello mancante è quello che Figliuolo ha chiamato “l’ultimo miglio”: nella testa del commissario c’è la ferma intenzione di varare una campagna vaccinale porta a porta, ma questa capillarità richiede una pianificazione logistica molto difficile e complessa, che è appunto in via di definizione.
Per il resto, le coordinate del nuovo piano risultano abbastanza chiare. A cominciare dal versante finanziario, dalle risorse cioè utili per rendere la filiera dei vaccini più fluida. Il Fondo, istituito dal ministero della Salute, destinato all’acquisto di vaccini e farmaci anti-Covid per il 2021, aveva a disposizione 400 milioni. Il governo Draghi vuole rafforzarne la dotazione: con il prossimo decreto Sostegno dovrebbero essere iniettati altri 2,8 miliardi, di cui la metà proprio per acquistare nuove dosi di vaccini disponibili. Il resto dei soldi servirà per le attività di stoccaggio, per la logistica necessaria alla consegna dei vaccini, compresi siringhe e aghi, e per le campagne di informazione e sensibilizzazione.
Il punto di raccolta di tutti i vaccini in arrivo dalle quattro case farmaceutiche (Pfizer, AstraZeneca, Moderna e, a breve, J&J) resta l’aeroporto militare di Pratica di Mare, su cui si sta intervenendo per adeguarlo alle diverse condizioni di conservazione dei sieri. I centri vaccinali, invece, verranno potenziati: Figliuolo (“Usare tutti i siti possibili per la campagna vaccini”) pensa a un punto vaccinale ogni 40mila abitanti. Nelle grandi città si utilizzeranno fiere, palasport, caserme, centri allestiti dalle Asl, senza dimenticare i drive in dell’Esercito (oggi sono 142, ma dovrebbero salire a 200 circa). Nei piccoli centri, invece, grazie all’apporto anche della Protezione civile e dei suoi volontari, saranno predisposti diversi punti mobili. Non solo: sono in corso colloqui con Confindustria, che ha dato la sua disponibilità, per prevedere le vaccinazioni all’interno delle grandi aziende, dove saranno i medici del lavoro a provvedere alle iniezioni, mentre per il personale delle Pmi si potrebbe ricorrere agli ambulatori dell’Inail.
Uno dei punti deboli del piano Arcuri è stato quello dei vaccinatori. L’ex commissario aveva promesso di mettere a disposizione 3mila medici e 12mila infermieri, da reclutare attraverso le agenzie del lavoro. Finora con i bandi ne sono stati trovati neppure la metà. È però (buona) notizia dell’altro ieri che a scendere in campo potrebbero essere gli infermieri professionali. Come riporta La Stampa, dei 269mila dipendenti di Asl e ospedali un terzo, circa 90mila, potrebbe aderire all’iniziativa: con due ore di lavoro extra al giorno, al costo lordo orario di 50 euro (quindi 160 milioni in tutto) ogni infermiere potrebbe eseguire almeno 6 iniezioni all’ora. Il che vuol dire anche poter arrivare potenzialmente a un milione di dosi al giorno, un ritmo che potrebbe risolvere il problema delle giacenze: oggi, infatti, una dose su cinque non viene utilizzata e resta nei frigoriferi, rallentando così il passo della campagna vaccinale, che oggi procede troppo a rilento (l’Italia è in ritardo di 5 milioni di dosi rispetto ai programmi iniziali) e a macchia di leopardo, con le venti Regioni che procedono per conto proprio.
Ma sul rapporto con le Regioni lo stesso Draghi è stato fin da subito chiaro: se c’è da pedalare, e sui vaccini non sono più ammessi surplace, meglio pedalare in tandem. Infatti si va verso un protocollo unico, con linee guida condivise e omogenee, a cui tutte le Regioni dovranno adeguarsi. E questo spiega, forse, perché la Lombardia ha per il momento messo in stand by il piano Bertolaso, predisposto e sperimentato con successo nella vaccinazione degli abitanti di Viggiù, un piccolo comune della provincia di Varese falcidiato dalla variante inglese.
Infine, c’è un’altra gamba che aiuta tenere saldamente in piedi il tavolo del nuovo piano vaccinale: la produzione nazionale di sieri anti-Covid. In epoca Conte-Arcuri sembrava una chimera irraggiungibile, neanche ipotizzabile; con l’arrivo di Draghi e il tavolo governo-Farmindustria coordinato dal ministro del Mise, Giancarlo Giorgetti, il progetto ha iniziato a muovere i primi passi. E sembra procedere speditamente: non solo sono in via di individuazione i possibili siti produttivi da riconvertire entro 4-6 mesi, ma l’Italia sarà il primo paese Ue a produrre i vaccini Sputnik, grazie all’accordo firmato due giorni fa tra il fondo sovrano statale russo, il Russian Direct Investment Fund, che detiene il brevetto, e l’azienda farmaceutica italo-svizzera Adienne Pharma&Biotech. Sputnik V verrà prodotto in due stabilimenti, in Lombardia e nel Centro Italia, mettendo così a disposizione altri 10 milioni di dosi da luglio 2021 a gennaio 2022.