Da più parti si guarda alla ripartenza dopo una crisi che è stata descritta come la più grave dal secondo dopoguerra. I dati sull’economia globale, non solo italiana, del resto mostrano delle cadute verticali in alcuni casi mai registrate in precedenza. Di questi attuali e importanti temi si parlerà anche al Meeting di Rimini, con il ciclo di incontri “Dopo il Covid. #quellicheripartono”, curato dalla Fondazione per la Sussidiarietà, in collaborazione con ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), Cassa Depositi e Prestiti e Fondazione Symbola, ai quali parteciperà anche Enrico Giovannini, Portavoce ASviS.
L’incontro di oggi “Pandemia 2020: da dove si ricomincia?”, ha un titolo decisamente interessante. Come si può rispondere a una domanda così sfidante?
Dobbiamo anzitutto decidere quale futuro vogliamo. Già prima dello scoppio della pandemia, il neoliberismo che abbiamo avuto come guida negli ultimi 40 anni aveva mostrato a livello globale segni di incapacità nel gestire una nuova fase dello sviluppo all’insegna della transizione ecologica e della lotta alle disuguaglianze, aumentate enormemente in tutto il mondo. C’era dunque già una domanda su come cambiare il modello di sviluppo. Per questo non dobbiamo tornare indietro, ma usare questa crisi per cambiare in meglio. Dobbiamo decidere quale futuro vogliamo provare a realizzare, non semplicemente rispondere alla domanda relativa a come sarà il futuro, come se qualcun altro dovesse deciderlo al posto nostro.
Quanto sta dicendo sembra legarsi anche al titolo di un altro incontro (in programma giovedì) a cui prenderà parte: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
Esatto. Questo momento non va sprecato. E il modo per farlo è domandarsi dove si vuole essere quando una nuova crisi si manifesterà.
Vede quindi già una nuova crisi all’orizzonte?
Il futuro sarà pieno di shock. Di natura ecologica, economica, sanitaria, sociale. Dobbiamo quindi abbandonare l’idea che il sistema economico e sociale che abbiamo costruito si possa facilmente adattare alle crisi ripetute che ci aspettano, come è avvenuto dal secondo dopoguerra in poi, in cui tutte le crisi economiche erano di tipo “classico”, anche violente ma brevi. Quando furono scritte le Costituzioni, nel secondo dopoguerra, il concetto di giustizia tra generazioni era assente, perché l’ipotesi di base era che il mondo sarebbe evoluto sempre verso il meglio, anche se con delle crisi temporanee, e quindi non c’era bisogno di proteggere le giovani generazioni, perché sarebbero state per definizione in una situazione migliore di quella delle generazioni precedenti. Oggi sappiamo che non è più così e quindi dobbiamo costruire una società che, per esempio, eviti alla generazione attuale di appropriarsi delle risorse che spettano a quelle successive. Che poi è il principio dello sviluppo sostenibile, ovvero quello sviluppo che consente alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni, senza pregiudicare il fatto che le generazioni successive possano fare altrettanto.
Come può tradursi concretamente questo principio dello sviluppo sostenibile nella creazione di un nuovo modello che aiuti la ripartenza?
In primo luogo, introducendo, come hanno fatto altri Paesi, il principio di giustizia intergenerazionale nella Costituzione, da cui possono derivare conseguenze concrete. Per esempio, in Belgio e in Francia, Paesi che hanno introdotto tale principio nella Costituzione, è stato anche cambiato l’oggetto della società per azioni, valorizzando l’idea del profitto di medio periodo e non più quello di breve termine che è stato invece messo al centro del capitalismo negli ultimi 40 anni. In realtà, la trasmissione intergenerazionale del capitale, cioè del bene creato attraverso il lavoro delle persone, è un elemento costitutivo dell’economia cooperativa, ma oggi ci sembra un’anomalia rispetto all’idea che il primo compito di una società sia quello di remunerare adeguatamente il capitale degli azionisti. Questo dimostra che abbiamo dimenticato che prima della rivoluzione neoliberale questi principi erano alla base del capitalismo.
Può farci un esempio?
Nel 1973 in Italia fu introdotta l’Irpef e l’aliquota più alta era del 72%. Negli Stati Uniti e in Inghilterra, patrie del capitalismo, si arrivava al 75%. Pensi che l’aliquota più alta sul capital gain era del 95%.
Sembrano percentuali da “esproprio”.
Invece era il modo in cui il capitalismo funzionava e produceva risultati straordinari. La tassa sulle successioni aveva un’aliquota che raggiungeva l’85%. Questo perché si riteneva che fosse giusto godersi il frutto del proprio lavoro, ma non che i propri figli beneficiassero troppo di ciò che aveva fatto la generazione precedente, in modo che si dessero da fare e facessero la loro parte. Questo spiega anche perché in Inghilterra e negli Stati Uniti ci sono molte scuole e molti ospedali con i nomi dei benefattori: tanti, piuttosto che pagare la tassa di successione, donavano alle comunità parte del proprio patrimonio. Non dico che dobbiamo tornare a quelle aliquote, ma il principio della giustizia tra generazioni, come vede, può diventare estremamente concreto, anche in termini di un sistema fiscale contrario alle rendite e favorevole alla creazione di sviluppo basato sul lavoro.
Questo principio di giustizia intergenerazionale può diventare importante in questo momento in cui si sta lavorando all’applicazione del Recovery fund?
Sì. Non a caso il nome scelto dalla Commissione per quello che ha indicato come Recovery fund è “Next Generation EU”. Non è che in Italia ci viene più difficile chiamarlo così perché delle nuove generazioni ci importa veramente poco?
O forse consideriamo la ripresa, la Recovery, qualcosa che riguarda il presente e non il futuro.
Proprio così. È la stessa logica per cui la viceministra dell’Economia Laura Castelli ha spiegato che occorreva aiutare tutti e non c’era tempo per inserire dei limiti di reddito per i beneficiari del bonus per le partite Iva, mentre per il Reddito di emergenza, che come ASviS abbiamo proposto insieme al Forum disuguaglianze e diversità, sono stati previsti vari adempimenti e verifiche preventive per procedere all’erogazione del sussidio. Perché per queste persone, che sono gli ultimi degli ultimi, che non hanno altre fonti di assistenza, c’è stato il tempo di mettere i giusti paletti e per gli autonomi no?
Lei ci vede una scelta di tipo politico o una disattenzione?
È chiaramente una scelta di tipo politico. Il problema è che le risorse non sono infinite, quindi ogni euro che noi usiamo per aiutare chi non avrebbe bisogno di essere aiutato è un euro in meno per investire sul futuro.
Vede il rischio che anche le risorse del Next Generation EU possano non essere utilizzate per le nuove generazioni?
Come ASviS abbiamo realizzato un’analisi utilizzando uno schema che ho sviluppato insieme al Joint Research Centre (JRC) della Commissione europea, che classifica le politiche adottate in base al fatto che proteggano, promuovano, preparino, prevengano e trasformino. Il risultato è che gran parte delle misure approvate con i decreti di questi mesi in Italia sono di protezione, il che significa implicitamente che si intendono destinare alla trasformazione i fondi che arriveranno dall’Europa. Se però, come alcuni stanno cominciando a proporre, si vogliono utilizzare anche queste risorse per politiche di protezione, quando arriverà il momento delle nuove generazioni?
Per certi versi quello di cui parla è un problema che riguarda l’impossibilità di realizzare nel nostro Paese gli investimenti, anche in un settore che per le generazioni del futuro è fondamentale come l’istruzione.
Non è una questione che riguarda solo il settore pubblico, ma anche quello privato, che paga le eccellenze italiane meno di quanto si faccia all’estero o utilizza contratti precari. Il fatto che un dottore di ricerca che ha conseguito il suo titolo in Italia andando all’estero guadagni mille euro di più al mese vuol dire che sforniamo bravi dottori di ricerca, ma che li incentiviamo ad andare altrove, perché non li si vuole pagare adeguatamente. Questo ha anche a che fare con una struttura eccessivamente fatta di piccole imprese, poco produttive e che dunque pagano salari bassi. Questa è un’altra ragione per cui non dobbiamo replicare il passato: per esempio, dobbiamo usare i fondi, sia nazionali che europei, per far sì che le nuove imprese che nasceranno, o le vecchie che si rafforzeranno, abbiano dimensioni più grandi, perché non sempre piccolo è bello.
L’idea della sostenibilità, declinata attraverso questi interventi, più che una ripartenza sembra un ricominciare.
A livello internazionale ci sono due “motti” che stanno emergendo. Il primo è quello del “Building back better”, usato anche dall’Onu, cioè ricostruire meglio. Io trovo che questo messaggio sia troppo orientato al passato. L’altro è il concetto del “Bouncing forward”, del rimbalzare avanti, che proponiamo come ASviS e JRC, basato sull’idea di una resilienza trasformativa, che guarda quindi avanti. Dobbiamo chiederci come vogliamo che l’Italia sia tra dieci anni, che futuro vogliamo costruire: e poi dobbiamo prendere decisioni per cercare di realizzarlo. È anche per questo che propongo da tempo la creazione di un istituto pubblico di studi sul futuro che aiuti la Presidenza del Consiglio e il Governo in questo compito. Ci sono diversi istituti di questo genere nel mondo.
Pensando alla situazione di qualche anno fa e alla percezione che c’è oggi della necessità di uno sviluppo sostenibile, possiamo essere fiduciosi sul fatto che ci sarà un cambiamento nelle politiche che verranno adottate.
Lo spero. Non le nascondo però che ho visto in queste settimane di risposta, se vuole concitata e drammatica, alla crisi, che non sono scattati certi automatismi.
In che senso?
Le faccio un esempio. Secondo alcune previsioni, il Pil quest’anno cadrà almeno del 10%. Questo ormai lo sanno tutti. Ma sa quanto cadrà il reddito disponibile delle famiglie? Dell’1,5%. Questo grazie allo Stato che svolge un ruolo di ammortizzatore della crisi. Il messaggio è radicalmente diverso guardando i due numeri, il -10% e il -1,5%. Se lo Stato dicesse che senza il suo supporto il reddito delle famiglie cadrebbe del 10% si può ben immaginare che percezione diversa della situazione ci sarebbe, anche nell’opinione pubblica. Una percezione diversa grazie a un numero. Che non a caso è inserito tra gli indicatori del Benessere Equo e Sostenibile (Bes), ma si continua a ragionare con le solite logiche. Non parlo solo del Governo, ma anche delle forze politiche, della società civile, della stampa. E questo ci mostra quanta strada c’è ancora da fare per cambiare l’ottica con la quale si legge la realtà e sulla cui base si prendono le decisioni.
(Lorenzo Torrisi)