Nel giorno in cui Ucraina e Russia hanno accettato di parlarsi – negli auspici di tutti almeno per un cessate il fuoco – due offerte di mediazione sono spuntate fra le minacce nucleari di Vladimir Putin e l’escalation delle mega-sanzioni occidentali. La prima – esplicita – è giunta dal segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Piero Parolin, poche ore dopo il “pellegrinaggio”, inedito e altamente simbolico, di Papa Francesco all’ambasciatore russo presso la Santa Sede.
La seconda ipotesi di inserimento politico-diplomatico fra Kiev e Mosca è invece per ora essenzialmente mediatica e riporta a Israele, dove il premier Naftali Bennett ha tenuto finora un profilo estremamente basso sullo shock geopolitico ucraino. Ma se fosse confermato che il più noto oligarca russo (il patron del Chelsea, Roman Abramovich, israelita) è al tavolo dei primi negoziati al confine bielorusso su richiesta ucraina, il mondo ebraico sarebbe da considerarsi già in azione. L’indiscrezione è stata lanciata dal portale britannico Jewish News.
È peraltro noto che durante il decennio di Bibi Netanyahu – di cui Bennett è successore, per quanto dopo una parziale presa di distanze e alla guida di una maggioranza di larghe intese – le relazioni fra Gerusalemme e Mosca si siano molto rafforzate. Erano invece molto peggiorate quelle con gli Usa di Barack Obama e del suo vice Joe Biden, per poi risollevarsi in occasione del controverso “piano di Abramo” annunciato all’inizio del 2020 da Donald Trump per la pace in Medio Oriente.
Bennett mantiene un atteggiamento fermo sulla “sicurezza dello Stato di Israele”, ma non estremista come quello di Netanyahu sui Territori palestinesi. È nato in California, è un finanziere tech membro a pieno titolo della potente comunità ebraica americana. E quest’ultima non ha mai amato l’obamismo velleitario dell’“export di democrazia”, fonte di infinite instabilità geopolitiche: in Egitto come nella stessa Ucraina dopo la Rivoluzione arancione. Di più: a Kiev le due posizioni chiave di governo – quella del presidente Volodymir Zelensky e quella del premier Denys Shmyhal – sono ricoperte da due israeliti. E Bennett non ha certo fatto mancare una telefonata di solidarietà a Zelensky, ma è verosimile che – in luogo di offrirgli appoggio militare o finanziario – gli abbia ventilato una mediazione con Mosca (con la quale Israele ha ultimamente condiviso il controllo aereo della Siria in funzione anti-iraniana).
Vaticano e Israele hanno in comune il fatto di essere due Stati massimamente connotati in senso religioso: il primo è l’entità statuale della Chiesa cattolica; il secondo è nato su una millenaria identità etnico–religiosa straziata dall’Olocausto (e il nazionalismo religioso resta spiccato nel profilo politico del premier in carica). Le loro iniziative per frenare e fermare la guerra guerreggiata in Ucraina con una “pace delle religioni” sembrano, anzi, la conferma di quanto la dimensione religiosa sia rilevante nella drammatica crisi geopolitica in corso.
In una preziosa analisi in tempo reale, il vaticanista statunitense John Allen rammenta su quale fitto reticolo di vitalità religiose – in massima parte cristiane – sia scoppiata la guerra russo-ucraina. E se è quasi certo – annota Allen – che il clash avrà impatti importanti sullo scacchiere confessionale globale, è vero anche che le Chiese sembrano avere quegli spazi di manovra che Stalin negava invece alle “divisioni del Papa” durante la Seconda guerra mondiale. Lo stesso San Giovanni Paolo II – il Papa polacco cui viene attribuito il primato morale nell’abbattimento finale della Cortina di ferro comunista, dopo averne subìto un attacco armato “ad personam” – ha sempre nutrito il massimo rispetto per il mosaico etnico-ortodosso dell’Est europeo.
Due sono comunque le situazioni che Allen raccomanda di tenere sotto osservazione. La prima riguarda l’universo ortodosso che vede dislocati metà dei suoi fedeli nel mondo fra Russia (100 milioni) e Ucraina (40 milioni). Le 15 chiese “autocefale” dell’ortodossia hanno uno storico primus inter pares nel Patriarcato di Costantinopoli, retto oggi da Bartolomeo, una figura decisamente aperta all’ecumenismo (e all’Occidente) e infatti interlocutore attivo di Papa Francesco.
È contro Bartolomeo – ancora prima del precipitare degli eventi alla frontiera russo-ucraina – che è cresciuta l’insofferenza del patriarca di Mosca. Kirill è da sempre un sostenitore (ricambiato) di Putin sul terreno del rinascente nazionalismo russo (lo stesso Stalin, durante la Grande guerra patriottica, sospese ogni genere di persecuzione religiosa). È d’altronde Mosca, ad oggi, il riferimento delle due chiese ortodosse ucraine: peraltro in competizione fra loro, laddove Mosca invece tende a considerare omogenea la comunità ucraina. Di qui uno scenario di non facile prevedibilità, anche se Allen privilegia quello di una “unione sacra” in difesa della patria ucraina, con un possibile capovolgimento del riferimento gerarchico ecclesiale a favore di Costantinopoli.
In Ucraina è però presente anche la maggiore fra le 23 chiese cattoliche orientali, “in comunione” con Roma. La Chiesa greco-cattolica ucraina è da sempre fucina di classe dirigente, con un atteggiamento tendenzialmente anti-russo. Dietro la “rivoluzione di Piazza Majdan” e l’aspirazione a un’Ucraina “occidentale” ci sono stati anche i cattolici di Kiev, che – annota Allen – saranno prevedibilmente messi alla prova dalla cautela della Santa Sede, preoccupata di aprire faticosi spazi di mediazione.
Ma è in fondo la stessa cautela – nient’affatto condivisa dall’intero cattolicesimo – che ispirò la Ostpolitik di Paolo VI. Premesso che la stessa ascesa di Karol Wojtyła fu possibile grazie a quella scelta di non chiudere la Chiesa in un “muro contro muro” con i regimi comunisti dell’Est, la strategia condotta da Agostino Casaroli (infine segretario di Stato) era efficacemente sintetizzata in un triplo motto: i cattolici dietro la Cortina di ferro dovevano via via “esse, bene esse, plene esse”. Sessant’anni dopo sembrava acquisita la piena libertà dei cattolici ucraini (e non solo) di professare la loro fede. Invece è tornata di brutale attualità la questione della semplice sopravvivenza fisica di un credente in Cristo: al confine fra Europa e Asia, in Africa o nel subcontinente indiano.
Al termine della crisi ucraina non sarebbe in ogni caso inverosimile registrare anche un (inatteso) arresto di una secolarizzazione globale ormai ritenuta irreversibile. E non è affatto sorprendente osservare già cattolici ed ebrei camminare nella stessa direzione: quella della pace. Mentre il mondo islamico – ultimamente bellicoso in alcune sue frange e regioni – sta osservando per ora un significativo silenzio: non certo di assenso alla “guerra di Putin”.
La Cina, certo, sta mostrando tutto l’eterno realismo laico della sua civiltà, quella dei mandarini confuciani, gli stessi che due anni fa hanno negato per mesi al mondo l’esistenza della minaccia-Covid. Ma non è detto che il mess combinato da Putin in Ucraina non suggerisca al (cinico) buon senso confuciano di lasciar perdere per ora l’idea di invadere Taiwan.
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