“È una decisione immotivata, indegna, incomprensibile sul piano istituzionale e gestionale. Pura aggressività politica che reca danno anche alla credibilità delle istituzioni”. È il commento del Presidente dell’Inps riferendosi al decreto del Governo che commissaria l’istituto previdenziale. “Un ente pubblico – ha dichiarato Tridico alla Stampa – si commissaria quando c’è malaffare, quando c’è corruzione, dissesto finanziario oppure un cambio di governance vera”. Evidentemente l’esimio professor Tridico si è dimenticato di citare un ulteriore caso in cui è ammesso commissariare un ente pubblico: quando il commissario si chiama Pasquale Tridico.



Ricorderà il Presidente in uscita che egli stesso fu chiamato a governare la “fabbrica delle pensioni”da commissario; che svolse questo ruolo per diversi mesi prima che gli fosse affiancato un Consiglio di amministrazione (dove – nel passaggio tra il Conte 1 e il Conte 2 – la minoranza divenne maggioranza e viceversa). E riconoscerà senza alcun dubbio che la sua nomina non fu determinata da malaffare, né da dissesto finanziario. Era solo cambiata la maggioranza dopo le elezioni del 2018 e, nella spartizione tra il giallo e il verde, l’Inps (e non solo) era toccata al M5S, mentre Tridico, a fianco del ministro Luigi Di Maio, aveva gestito l’operazione “Reddito di cittadinanza”. Anzi, il suo trasferimento all’Inps era rivolto a garantire un’applicazione il più sollecita possibile della misura che avrebbe eliminato la povertà. La direttiva del Governo fu quella di pagare senza fare troppe storie. E Tridico si adeguò.



Ma c’è di più. Non è certo la prima volta che, per vari motivi, i Governi procedono al commissariamento degli enti previdenziali. È assai frequente inoltre che i Presidenti provengano da un periodo di tempo (più o meno lungo, a volte anche di un anno o più) svolto nel ruolo di commissari. Oltre al caso di Tridico, nella mia esperienza all’interno della governance degli enti di previdenza (sono stato presidente del Collegio dei sindaci dell’Inpdap e dell’Inps) ricordo i casi di almeno tre commissari/presidenti (Mauro Seppia all’Inpdap e Gian Paolo Sassi all’Inps). Ma in altre circostanze vi sono state esperienze di commissariamento (come quella di Tiziano Treu all’Inps) più brevi motivate da ragioni particolari diverse tra di loro, dettate soprattutto per assicurare, magari per breve tempo, la continuità amministrativa degli enti.



Certamente, le riforme della governance hanno determinato anche ricambi all’interno degli organi istituzionali. Tridico ha ragione su di un punto: la riforma inserita nel decreto (in cui è prevista persino quella norma sfacciatamente strumentale del pensionamento a 70 anni per i sovraintendenti degli enti lirici) somiglia molto a un gioco delle tre carte, nel senso che vengono previste alcune modifiche che di essenziale non hanno nulla, come se si volesse cambiare qualche cosa perché nulla cambiasse nella sostanza, tranne i deretani da accomodare sulle poltrone.

Basta leggere il comunicato di Palazzo Chigi che non riguarda solo l’Inps ma anche l’Inail, che poi sono rimasti gli ultimi enti previdenziali pubblici, sopravvissuti alle incorporazioni. “In relazione alla governance degli enti previdenziali pubblici, si abolisce la figura del vicepresidente, si prevede una modifica dei poteri del Presidente, che propone la nomina del Direttore generale (prima appannaggio del Consiglio di amministrazione) e si prevede una modifica della disciplina del Direttore generale, stabilendo che lo stesso sia nominato dal Cda su proposta del Presidente, duri in carica 4 anni (in allineamento con tutti gli altri organi, anziché 5) e sia scelto con procedura comparativa di interpello, come per i dirigenti della Pubblica amministrazione, anziché tra i dirigenti interni o tra gli esperti della materia”. È quanto prevede una norma del decreto che contiene la “riforma della governance degli enti previdenziali pubblici, delle fondazioni lirico-sinfoniche e delle società quotate”.”In via di prima applicazione – prosegue la nota – al fine di procedere agli adeguamenti dei regolamenti organizzativi e interni degli enti, si prevede che entro 10 giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge sia nominato un Commissario straordinario, con la conseguente decadenza dei Presidenti, dei vicepresidenti e dei Consigli di amministrazione”.

Restano in carica i Consigli di indirizzo e vigilanza dove sono presenti le delegazioni delle parti sociali (ovvero gli “azionisti” degli enti). La governance dell’Inps (diverso il caso dell’Inail) ha conosciuto in cinquant’anni molti cambiamenti. Con la riforma del 1969 il Governo dell’istituto venne affidato alle parti sociali i cui rappresentati facevano parte di un Consiglio di amministrazione; il Presidente eletto per la componente dei lavoratori (si alternavano le persone indicate dalle grandi confederazioni) con due vicepresidenti uno per parte. Questa struttura è restata immutata fino al 1994, quando, dopo l’apertura di un capitolo di Tangentopoli riguardante gli enti previdenziali e la loro compravendita di immobili (come forma di investimento), le confederazioni sindacali effettuarono il beau geste di rinunciare a un ruolo di gestione diretta.

Nel 1994 il Parlamento diede corso a un sistema duale a valere per tutti gli enti previdenziali pubblici. La nomina del Presidente, del Cda e del Direttore generale venne affidata al Governo, mentre le parti sociali indicavano i loro rappresentanti nel Consiglio di indirizzo e vigilanza (Civ) che, oltre a emanare le direttive generali, doveva approvare il bilancio predisposto dal Cda. Nella XVI legislatura, il Governo fece approvare una piccola modifica, concentrando sul Presidente anche i poteri del Civ. In base alla lunga esperienza (13 anni: 8 all’Inpdap e 5 all’Inps) all’interno degli organi istituzionali dei maggiori enti previdenziali mi sono fatto l’idea che il vero limite del dualismo non fosse quello dei poteri effettivi da conferire al Civ soprattutto per quanto riguardava l’applicazione delle sue direttive.

Il più delle volte sorgeva un problema di applicabilità ovvero della concreta possibilità dell’amministrazione di dare corso alle indicazioni dell’organo di vigilanza: il che comportava che fosse normale il fatto che esse rimanessero mere petizioni di principio, in un contesto complessivo in cui prevalevano nettamente le istanze esecutive. Peraltro, la gestione monocratica (sulla figura del Presidente si concentravano anche i poteri del Cda) ha evidenziato spesso un limite: quello di coinvolgere, nei fatti, il Collegio sindacale nelle decisioni, quasi alla stregua di un Consiglio di amministrazione, snaturando così le funzioni specifiche del collegio stesso, che finiva per svolgere una funzione co-decisionale, anziché di controllo. Era prassi, infatti, dei Presidenti deliberare in riunione con i collegi dei sindaci e il magistrato della Corte dei Conti.

La situazione può sembrare paradossale, ma non c’erano alternative, essendo il compito dei collegi di partecipare alle riunioni degli altri organi, i quali si concentravano nel ruolo monocratico del Presidente. È stata quindi opportuna la scelta compiuta nella passata legislatura di ripristinare i Cda: una scelta che oggi non sembra in discussione.

Sulla questione della governance degli enti previdenziali c’è un altro aspetto a mio avviso colpevolmente ignorato: quello relativo alle Casse “privatizzate”. Sin da adesso sarebbero necessari processi di accorpamento fra le Casse per traguardare una maggiore efficienza gestionale attraverso economie di scala e di scopo con accordi di tipo cooperativo che prevedano l’utilizzo congiunto di strutture e di attività di servizio. Ciò anche nell’interesse delle categorie dei professionisti iscritti alle loro Casse le quali, prima o poi, sentiranno anche loro gli effetti del cambiamento demografico e degli squilibri tra il numero dei pensionati e quello degli attivi.

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