Imperversa la discussione sulla scultura dell’artista Vera Omodeo raffigurante una madre che allatta al seno il neonato. Come è noto i tecnici della commissione (architetti del Comune di Milano, un architetto membro della Commissione per il paesaggio e una persona nominata dalla Sovrintendenza) hanno negato il permesso di collocare la statua in piazza Duse, come richiesto dai familiari dell’artista. Come si sa, il motivo del veto è stato drastico e tassativo: l’opera richiama “valori rispettabili ma non universalmente condivisibili”. Ora, mentre si sta cercando di spegnere la polemica proponendo un contesto alternativo a quello di piazza Duse per la collocazione della scultura, rischia di rimanere in ombra l’aspetto centrale e inquietante della vicenda, cioè la perentorietà di una bocciatura sostenuta da un giudizio contestabile e, a ben vedere, all’origine di tante indignate reazioni.
Come sorvolare sulla motivazione addotta dai tecnici? Come trascurare il senso di certe parole che suonano ambigue, fragili e oscure? Perché mai i valori evocati dalla raffigurazione artistica sarebbero da considerare “rispettabili ma non universalmente condivisibili”?
La scultura della madre che allatta al seno il bambino evoca, nella sua sobria delicatezza, l’immagine della maternità, dimensione che riguarda l’intera umanità. L’esperienza della maternità, dell’essere figli, del generare legami, accudimento, nutrimento, compare nel titolo stesso dell’opera: “Dal latte materno veniamo”. Basterebbe guardare la realtà, avere uno sguardo libero e leale per “vedere” l’immagine per quella che è, oltre le supposizioni deformanti dell’interpretazione ideologica.
Oggi siamo facilmente portati, quasi abituati, a considerare qualsiasi fatto del tutto “opinabile”, fino a prescindere dai connotati reali di una data situazione da considerare e da comprendere per quel che è realmente. Siamo inconsapevolmente prigionieri di un soggettivismo che annebbia il nostro sguardo e la percezione di quel che cade sotto i nostri occhi: “Così, semplicemente si ignora il fatto che la validità o il valore di un’opinione dipende esclusivamente dalla sua conformità alla realtà, cioè non ci si chiede più se un’affermazione sia vera o falsa” nota il filosofo Dietrich von Hildebrand, nel saggio La detronizzazione della verità (Cantagalli) nel quale approfondisce le deleterie conseguenze di un relativismo che giunge a permeare l’esistenza fino a oscurare l’interesse stesso per la verità portando alla distruzione di ogni ragionevolezza e di ogni vita comunitaria.
Non è casuale che la soluzione prospettata per sopire le tensioni sollevate dalla richiesta di installazione della scultura, sia orientata ora alla ricerca di uno spazio defilato, “privato”, con il chiaro intento di ridurre, relativizzare il messaggio che in realtà, nella raffigurazione della madre che allatta il bambino, assume il riconoscimento della maternità nella sua dimensione universale, simbolo di una verità essenziale e costitutiva, connaturata in ogni essere umano e quindi fondamento di ogni convivenza sociale, di ogni libertà e di ogni dialogo. Il “diktat” oggi non ammette alcun valore universale: le regole che combaciano con la natura umana sono scardinate, la regola “divina” diviene quella del “politicamente corretto” che si incarica puntualmente di rinchiudere ogni opzione di libertà della coscienza nel recinto “privato” del soggettivismo.
La dittatura del relativismo, sempre più soffocante e deprimente per la libera espressione e per la vitalità sociale, in questa contingenza rivela tratti inquietanti proprio per il tema implicato: il nascere è evento irriducibile, assolutamente irripetibile per ogni essere che viene alla luce inaugurando un “inizio”. E proprio con il suo irrompere nella storia, imprime nella vicenda umana una sua impronta originale, il dono di una novità. Così sostiene Hannah Arendt ricordandoci che la maternità è un evento miracoloso, ogni volta inedito, emblema di una imprescindibile relazione in grado di realizzare una “pluralità di esseri unici”. Nessuno evidentemente potrebbe supporre una estraneità all’evento del nascere, per sua natura alieno dalla tirannia di logiche astratte, ma radicato nell’esperienza umana che racchiude il paradosso di un’unicità libera nel legame con l’altro.
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