Ci troviamo dentro una crisi senza precedenti non tanto per la sua gravità, quanto per le sue caratteristiche: praticamente nessuno di noi ha memoria di un’emergenza sanitaria con un impatto così importante sulla vita di tutti i giorni. Ma la percezione del coronavirus non è univoca, e non è colpa dell’ignoranza della popolazione. Consideriamo ad esempio la decisione di chiudere le scuole fino al 15 marzo. Questa scelta, presa dal premier Conte il 4 marzo, ha visto la contrarietà del comitato scientifico della Protezione civile, che la ritiene di dubbia efficacia nel contenimento dell’epidemia. Di questa e di altri cortocircuiti comunicativi abbiamo parlato con Emilio Pucci, esperto di comunicazione e fondatore di E-Media.



Come valuta la gestione della comunicazione da parte del governo riguardo al coronavirus?

In un caso come questo non va giudicato il singolo atto comunicativo né la coerenza tra i vari atti del governo, ma l’effetto sociale che l’insieme della comunicazione genera. Tutti possono svolgere il loro lavoro egregiamente, ma se l’effetto sociale è la confusione, come sta accadendo col coronavirus, qualcosa è andato storto.



Che cosa, secondo lei?

Una premessa. Oggi le persone oscillano tra sottovalutazione e sopravvalutazione. Si tende a considerarlo o un’influenza sovrastimata oppure un rischio reale di una terribile pandemia. Questo vuol dire che le comunità hanno perso la capacità di comprendere cosa sta accadendo.

Ripartiamo dall’inizio. L’Italia è la prima a prendere seriamente l’arrivo del coronavirus dalla Cina.

Nei primi dieci giorni c’è stata una comunicazione che ha fatto molte concessioni alla notizia, magari nella convinzione che il problema si sarebbe risolto rapidamente. Penso alle immagini dell’aereo mandato a riprendere i nostri connazionali in Cina o alla recinzione della zona rossa di Codogno: sono state spettacolarizzazioni che si sono ritorte contro il governo.



Perché le ritiene spettacolarizzazioni?

Nel primo decreto ministeriale, quello che appunto ha chiuso Codogno, si ipotizzava la chiusura delle zone-focolaio anche in presenza di un solo caso di contagio. Poi nei fatti sono state prese solo decisioni simboliche, come chiudere Codogno o il duomo di Milano. Ma perché il Duomo e non la metro? Perché Codogno e non tutta la Lombardia?

Appunto, perché?

Perché si sono fatte solo le scelte possibili dal punto di vista economico e logistico. E intanto in Cina vedevamo la città di Wuhan in quarantena, circondata dai carri armati.

Un po’ troppo per una semplice influenza. E poi perché chiudere cinema e teatri ma non librerie e centri commerciali?  

Domande come questa hanno alimentato la visione che per gestire l’emergenza si siano prese varie iniziative, senza una visione organica. Internet ha incrementato questo tipo di percezione. La comunicazione deve essere molto precisa in un contesto, come quello odierno, dove non sono soltanto i media tradizionali, o comunque con responsabilità editoriale, a gestire la comunicazione, ma c’è un sistema mediale, i social appunto, che non è disposto ad allinearsi alla versione “ufficiale”. E non può essere costretto a farlo.

Arriviamo ad oggi. Mentre i numeri del contagio si aggravano, i media li espongono sempre meno. Anzi, dopo aver cavalcato l’emergenza la prima settimana, adesso stanno cercando di rassicurare l’opinione pubblica.

Sì, alla fine persino le notizie rassicuranti hanno finito per non rassicurare più nessuno. Questo perché sono state messe in circolazione, ma all’opinione pubblica non era chiaro perché, ricevendo certe informazioni, dovesse sentirsi più tranquilla. Prendiamo il caso della notizia che vede l’Italia prima per tamponi rispetto agli altri paesi e per questo prima in Europa per numero contagi. La notizia doveva rassicurare sulle nostre buone pratiche, ma ha solo portato gli altri Stati a fare i tamponi a chi veniva dall’Italia.

Niente escludeva che noi avessimo semplicemente più contagiati degli altri.

Sì. Insomma, la comunicazione ha contribuito a creare una scia d’incredulità, che fa sì che ogni messaggio rassicurante ormai venga percepito tale solo fintamente. Quindi adesso le persone tenderanno a trovare da sole le spiegazioni, dovessero essere anche le più bizzarre.

A questo si è sommato il fatto che la scienza medica non sa ancora dare spiegazioni precise su come si propaga il coronavirus e su come contrastarlo.

Il problema non è l’interpretazione scientifica del virus, ma lo sforzo che la scienza chiede alla sanità pubblica. Se io voglio curare tutti i contagiati con l’ambulanza di biocontenimento e il posto in rianimazione garantito, finirò per non avere le risorse per farlo. E se le pratiche identificate come corrette non possono essere portate avanti, il sistema collassa.

Adesso che i contagi da coronavirus salgono anche all’estero, gli altri Stati occidentali dovranno seguirci?

Dovranno farlo, perché l’Italia ha applicato le direttive della comunità scientifica internazionale. Il danno – e se questo nostro approccio nei primi dieci giorni è un danno ancora non so dirlo – ormai è stato fatto.

(Lucio Valentini)

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