Il comunismo fu un errore storico: a confessarlo fu Italo de Feo, braccio destro di Palmiro Togliatti. Ne parlò a Ciriaco De Mita, che all’epoca era segretario della Democrazia cristiana, in una lettera ritrovata qualche settimana fa a Porta Portese, lo storico mercato di Roma. La missiva, che riporta l’intestazione del Sindacato libero scrittori italiani perché all’epoca Italo de Leo ne era presidente, risale al 23 novembre 1984. Enrico Berlinguer era morto da pochi mesi e il Partito comunista italiano aveva sorpassato la Dc alle elezioni europee. Ma quell’anno era in corso un dibattito interno che portò il Pci alla trasformazione nel Partito democratico della sinistra.



Dal canto suo, Italo de Leo sentì la necessità di avvertire riguardo la pericolosità del comunismo e che rappresentava una minaccia per la libertà. La vicenda è stata ricostruita dalla Verità, che indica anche l’autore del rinvenimento su una bancarella del mercato romano: si tratta dello studioso Giuseppe Garrera, nonché collezionista. De Mita, il destinatario di quella lettera, era irpino come de Feo e anticomunista. Così si era definito durante un ricordo di Aldo Moro a Benevento, parlando dell’atteggiamento del Pci guidato allora da Alessandro Natta.



LA LETTERA DI DE FEO A DE MITA IN CUI STRONCA IL COMUNISMO

Italo de Feo, che era stato presidente e vicedirettore della Rai, aveva anche una carriera politica intesa, cominciata nel 1943 da capo dell’ufficio stampa del Comitato di liberazione nazionale, poi andata avanti col Pci come segretario e collaboratore di Palmiro Togliatti. Nel 1947, però, venne sospeso dalle attività del partito per i motivi rivelati in un libro autobiografico del 1971: aveva letto un rapporto sugli italiani in Jugoslavia, in particolare sul trattamento «indegno» perché non erano fascisti. Quindi, non aveva esitato a esprimere il suo pensiero. Dopo l’addio al Pci, si unì al Partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat. La Verità precisa di non sapere se la lettera per De Mita sia arrivata al destinatario, comunque scriveva, nel documento riportato dal giornale, che aspettava da tempo che arrivasse alla sua stessa conclusione. «Le idee di socialità e d’eguaglianza che il comunismo sbandiera servono solo ad ingannare le persone generose che vi si lasciano invischiare».



A proposito del Pci, lo definiva nella missiva «un semplice organo esecutivo di deliberati assunti a Mosca», aggiungendo che i dirigenti erano funzionari «scelti fuori d’ogni logica, che non sia quella degli interessi sovietici». Inoltre, Italo de Feo osservava che i comunisti erano ormai penetrati nei gangli della società. Rimproverava anche il fatto che la Dc e gli altri partiti lo avessero «trattato come un partito democratico», accreditato così anche dalla Rai, che al momento della sua uscita di scena aveva programmi comunisti per il 90% della sua programmazione, stando al collaboratore di Togliatti. Lo cita per ricordare cosa gli disse quando fu messo a capo della radio italiana: «Ricordati che il controllo della radio vale più della presidenza del Consiglio». Infine, nella lettera a De Mita chiedeva di far uscire la società da quella condizione di «ignoranza politica e arretratezza civile» in cui si trovava.