Fu la “madre” dei concerti di beneficenza, qualcosa che in precedenza esisteva solo in piccole proporzioni. Eventi benefici ce ne erano sempre stati, ma pensati su scala mondiale, con la presenza di alcune delle più grandi star dell’epoca e con una produzione multimediale (concerto, disco, film) non era mai successo. Non ci sarebbe stato Live Aid senza il Concert for the Bangladesh ideato dall’ex Beatle George Harrison e via via tutti gli altri mega eventi che si sono succeduti (prima ancora del Live Aid, nel 1979,  No Nukes, serie di concerti contro l’energia nucleare che lanciarono nell’olimpo del rock un giovane Bruce Springsteen; il concerto per New York City del 2001 dopo l’attentato alle Torri Gemelle; One love Manchester nel 2017 dopo gli attentati nella città inglese alla fine del concerto di Ariana Grande per dirne due).



Era il 1 agosto del 1971, i Beatles si erano già sciolti da un anno e quello che era sempre stato definito “the quite Beatle”, il Beatle tranquillo, sempre in seconda fila rispetto ai suoi colleghi Lennon e McCartney, mise in piedi un evento enorme per i tempi, tale da dargli in un colpo solo uno status leggendario.



Da anni innamorato dell’India, della sua cultura e della sua religione, Harrison era molto amico del musicista indiano di sitar Ravi Shankar. Questi gli espresse la sua preoccupazione per quanto stava avvenendo laggiù: una guerra feroce tra Pakistan Occidentale e Orientale, dopo che quest’ultimo aveva osato dichiarare l’indipendenza denominandosi Bangladesh. La guerra aveva provocato almeno dieci milioni di profughi in India, bambini orfani, malattia e fame. Ravi Shankar pensava di organizzare un evento modesto per raccogliere almeno 25mila sterline, ma Harrison, con l’esperienza manageriale che aveva imparato con il suo ex gruppo, fece le cose alla grande, alla grandissima. Fa sorridere naturalmente che la data per l’evento, il 1 agosto, venne scelta perché un astrologo indiano disse a Harrison che i primi giorni di agosto sarebbero stati ricchi di “buone vibrazioni” e avrebbero favorito l’evento.  Ma d’altro canto era in piena sintonia con la cultura dell’epoca, gli ultimi rimasugli dell’utopia hippie di pace & amore.



L’idea era di unire musica occidentale e orientale, cosa che gli hippie facevano da tempo: la cultura induista stava avendo, grazie al viaggio degli stessi Beatles in India nel 1967, un successo di massa. Ravi Shankar era ovviamente assicurato. Nel mese di luglio l’ex Beatle pensò a chi dei suoi amici avrebbe potuto suonare. Il primo a cui lo chiese fu Eric Clapton che accettò, anche se il chitarrista inglese stava vivendo un pessimo momento: eroinomane, a causa dell’amore non corrisposto dalla moglie dello stesso Harrison, non era in grandi condizioni, anzi. Non si reggeva proprio in piedi, tanto che venne reclutato un altro chitarrista, Jesse Ed Davis, ma alla fine con l’aiuto di dosi elefantiache di metadone, Clapton fu in grado di salire sul palco. Si aggiunsero i Bad Finger, band inglese sotto contratto della Apple, il pianista americano straordinario Leon Russell, forte della notorietà ottenuta nel tour di Joe Cocker Mad Man and the Englishmen; il tastierista americano Billy Preston già con i Beatles. Con immensa eccitazione quando la notizia fu resa pubblica, si unì anche Ringo Starr, cosa che fece sperare tutti in una reunion dei Beatles.

Harrison in effetti contattò Lennon che accettò, tranne andarsene da New York due giorni prima del concerto perché Harrison aveva chiesto si esibisse senza la moglie Yoko Ono… Ci fu un tentativo anche con Paul McCartney, che però declinò l’invito in seguito ai malumori ancora persistenti dopo la brutta separazione tra il gruppo.

L’ex Beatle si era messo anche sulla pista del suo grande amico Bob Dylan, che viveva in quel periodo in una autentica reclusione, con moglie e figli, e da anni aveva rinunciato ai concerti (a parte l’esibizione nel 1969 all’Isola di Wight). Lo convinse, ma fino all’ultimo Dylan lo fece impazzire, minacciando di andarsene a casa fino a pochi minuti prima di salire sul palco. Eppure, proprio la notizia della presenza del più importante autore di canzoni americano degli anni 60, da anni lontano dalle scene, fu il motivo che richiamò un pubblico tale da fare il tutto esaurito per due concerti, previsti uno al pomeriggio l’altro alla sera dello stesso giorno, il 1 agosto.

Sede del concerto venne scelta la più importante location americana, il Madison Square Garden di New York.

La house band di accompagnamento venne messa insieme contando sui Bad Finger alle chitarre acustiche, Klaus Voorman, amico dei Beatles sin dai tempi di Amburgo autore della copertina di Revolver, al basso, Jim Keltner alla batteria, i fiati degli Hollywood Horn.

Le prove si tennero solo cinque giorni prima dell’evento, ma solo la sera prima tutti erano presenti. Stephen Stills, che aveva suonato al Madison due giorni prima, permise di usare tutto l’equipaggiamento tecnico, audio e luci, ma Harrison non lo invitò a esibirsi e neanche gli disse un grazie. Stills passò tutta la serata nel camerino di Ringo Starr a ubriacarsi incazzato nero.

Ma soprattutto, si trattava della prima apparizione live di George Harrison da quando i Beatles avevano smesso di suonare dal vivo nell’agosto 1966. Anche Bob Dylan aveva smesso di suonare nello stesso momento. Insomma ce ne era abbastanza per essere preoccupati. Ma tutto andò magnificamente. L’intera città di New York era al massimo dell’eccitamento nei giorni precedenti l’evento.

Il primo dei due concerti fu più teso e impacciato ovviamente, ma comunque riscosse il favore del gruppo. E’ il secondo però che rimase nella leggenda e che appare nel film poi presentato nei cinema di tutto il mondo.

Dopo la (noiosa per noi occidentali) esibizione di Ravi Shankar, Harrison salì sul palco accolto da un boato del pubblico, lanciandosi in apertura con Wah-Wah dal suo nuovo lp primo disco solista, All thing must pass, seguita con un tuffo al cuore di tutti dalla prima esecuzione live di Something, incisa su Abbey Road dei Beatles.

Billy Preston si lanciò in una fenomenale That’s the way God planned it, esuberante performance di gospel rock nel corso della quale si alzò dall’organo per muoversi a tempo di boogie avanti e indietro per il palco trascinando gli oltre 20mila del Madison Square Garden in una sorta di celebrazione evangelista in una chiesa del profondo sud. Dopo di lui Ringo Starr con il suo successo del momento, It don’t come easy.

Clapton riuscì a riprodurre il magico assolo di While my gustar gentili weeps già inciso sul White Albun accompagnando Harrison in un altro pezzo inedito dal vivo dei Beatles. Leon Russell non fu da meno con un bollente medley composto da Jumpin’ jack flash degli Stones e Young blood dei Coasters con il quale il pianista e cantante fece esplodere il pubblico presente.

A quel punto Harrison annunciò un brano per sole chitarre acustiche e accompagnato dai Bad Finger propose un altro brano pubblicato con i Beatles per la prima volta dal vivo, la deliziosa Here comes the sun. Presa  poi la chitarra elettrica, l’ex Beatle guardò il foglietto attaccato con lo scotch sul retro dove era scritto “Bob” con il punto di domanda, tanto non era certo che il celebre cantautore si sarebbe esibito. Invece salì sul palco con una giacca di jeans, evidentemente nervoso come disse Harrison in seguito: “Fu solo in quel momento che seppi che si sarebbe esibito”. Accolto da boati di gioia impazzita, accompagnato discretamente da Harrison, Russell al basso e Ringo Starr al tamburello, Dylan eseguì cinque di quelle sue canzoni che avevano definito gli anni 60: Hard rain, Blowin’ in the wind, It takes a lot to laugh, it takes a train to dry, Love manus zero/No limit e Just like a woman.

Nella replica serale Dylan avrebbe escluso Love minus zero per sostituirla con una estatica, cosmica, celestiale Mr. Tambourine Man. Fu il momento clou dei due eventi, che ridefinirono per il decennio successivo il ruolo di gigante del cantautore e del carisma che sapeva trasmettere.

Con una voce squillante, precisa e ricca di emozione, Dylan riportò l’inno dei diritti civili Blowin’ in the wind all’attualità in un’America ancora ferita dalla guerra in Vietnam, mentre l’incubo dell’apocalisse nucleare Hard rain si adattò perfettamente alla tragedia anch’essa apocalittica nel Bangladesh. Mr. Tambourine Man, inno del folk rock psichedelico e di una stagione troppo bella per essere dimenticata, riprese vita e venne declamata con urgenza e poesia. Tutto fu magnifico e rimane ancor oggi come uno dei momenti più riusciti per un musicista che spesso dal vivo ha deluso. Ma non quella sera del primo agosto 1971.

Dylan terminò il suo set con un saluto vittorioso, alzando entrambi i pugni al cielo. Dietro le quinte, l’uomo che aveva avuto timore a salire sul palco, abbracciò Harrison sprizzando felicità: “Dio, se avessimo potuto fare tre show!” gli confidò.

Nel  contesto della contro cultura del tempo, con la disillusione sempre più diffusa di ogni evento rock post-Woodstock, i commentatori descrissero questo evento come, nelle parole di Rolling Stone, “un breve revival incandescente di tutto ciò che era meglio degli anni Sessanta”.

Dal punto di vista dello scopo caritativo, i due concerti raccolsero 243.418 dollari, che vennero devoluti all’Unicef. La Warner Bros Records a dicembre diede alla Apple, un assegno di circa 3 milioni e 750mila dollari di anticipo per le vendite del disco dal vivo che era stato tratto dai due concerti. Purtroppo la stupida mossa del manager dei Beatles e della Apple, Allen Klein di non aver registrato l’evento come un concerto di beneficenza per l’Unicef, tenne bloccati quasi tutti i soldi per dieci anni, a parte un paio di milioni di dollari. Solo nel 1981 fu possibile liberare i rimanenti 8,8 milioni di dollari. Nel giugno del 1985, 12 milioni di dollari erano stati inviati in Bangladesh, un po’ tardi rispetto all’emergenza del 1971. Ma come commentò Harrison, “bisogna ricordare che era un momento storico in cui nessuno era veramente a conoscenza di questo tipo di eventi, di certo non c’era stato niente del genere e, naturalmente, 13,5 milioni di dollari di allora erano probabilmente molto più di quanto valgano ora”. Il film, pubblicato su vhs prima e su dvd poi, il disco ristampato diverse volte su cd hanno continuato a produrre incassi tanto che negli anni 90 Harrison dichiarò una somma di 45 dollari versata all’Unicef in quel che era diventato il George Harrison Fund for Unicef.

Fu un evento che ancora oggi emana gioia e tutta la forza rivoluzionaria della musica.