Ognuno sale sul palco con un diritto da rivendicare, ognuno sale sul palco con una causa da promuovere, ognuno sale sul palco con qualcosa da urlare. Il “Concertone” del Primo Maggio, che dal 1990 colora la Festa dei Lavoratori della Capitale, è organizzato dai sindacati confederali per promuovere il diritto al lavoro in un giorno che gli eventi della storia hanno tragicamente archiviato come decisivo per la dignità di chi lavora. In quasi 35 anni molte cose sono cambiate e l’evento in qualche modo rispecchia quello che è accaduto. I sindacati dell’ultimo decennio del Novecento si sedevano al tavolo con Ciampi per suggellare con la concertazione il loro forte radicamento nella società, il concerto del Primo Maggio rappresentava la dimostrazione della loro forza, della loro centralità culturale e della loro capacità di parlare ai giovani con il loro linguaggio. Oggi il sindacato è una realtà che appare stanca, divisa tra l’essere una corporation di servizi e un soggetto politico, con la CGIL di Landini che sembra l’arbitro della competizione tra Schlein e Conte per la leadership della sinistra. Una situazione complicata che racconta di come la rappresentanza sindacale sia una delle vittime di quell’ondata populista che ha scosso il nostro Paese e l’Occidente durante gli anni Dieci, delegittimando i corpi intermedi e il concetto stesso di mediazione.
È dunque una realtà che annaspa quella che organizza il mitico Concertone, alla ricerca di un dialogo con una complessità civile che non riesce più a raggiungere, a interpretare, a pienamente rappresentare. Anche per quel mondo, insomma, è venuto meno il soggetto. E la manifestazione musicale non ha più una narrazione unitaria, ma è l’insieme di singoli che affermano legittime ragioni, ma nessuna visione di insieme. Ci manca una comunità, ci manca il riconoscerci all’interno di un legame che ci definisce e ci identifica. Sappiamo chi siamo, ma non sappiamo più di chi siamo. E per questo siamo più soli, relegati sui nostri schermi a consumare contenuti, a impegnare desideri che non si trasformano più in passioni, in lavoro nella realtà.
Dovrebbe essere la festa del lavoro, ma è una triste sfilata, la sfilata delle occasioni mancate, di una fatica inconfessabile ad essere insieme, a fare insieme, a costruire.
Il problema del lavoro non sono anzitutto i diritti, ma il valore della persona, di quello che ciascuno è, del diritto al senso e al destino che ciascuno di noi ha. Potremmo avere anche tutti i diritti del mondo, che ci devono essere e devono essere riconosciuti, ma non avremmo vinto così la solitudine del non senso, la disperazione del nulla. Contro tutto questo un concerto non ci salverà, un altro governo non ci salverà, una rivolta non ci salverà. Serve uno scatto di vita, una rivoluzione del cuore, una canzone nuova che ha come tema di fondo il desiderio di vivere, di mettere mano alle cose, di lavorare con dignità e umanità. Questo è il concertone che ci manca. E che purtroppo non risuona più tra le nostre cose. Lasciandoci nell’incertezza per il domani. Con la paura della tempesta, con la paura – in fondo – di non riuscire più a sperare e a tenere tutto insieme.
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