All’indomani del crollo del Ponte Morandi, il ministro Toninelli ha annunciato la decisione di “revocare” la concessione ad Autostrade per l’Italia. In un precedente articolo, abbiamo fornito una breve sintesi del contenuto di due articoli della convenzione, il 9 e il 9-bis, che regolano, rispettivamente, la “decadenza” e la “revoca” della concessione. Avevamo quindi messo in evidenza come attivare la procedura di revoca fosse un atto unilaterale di rottura del contratto, a seguito del quale sarebbe stato inevitabile pagare una penale milionaria. Avevamo anche mostrato come la procedura di “decadenza” fosse senza dubbio più lenta ma anche più sicura, soprattutto se attivata dopo una sentenza di condanna da parte della magistratura.



Il ministro Toninelli aveva però una notevole fretta mediatica e aveva, quindi, fatto preparare dai tecnici del ministero un parere, pubblicato sul sito del Mit, che avrebbe dovuto fornire argomenti sufficienti per vincere le preoccupazioni di molti, anche all’interno del governo giallo-verde, e dare il via alla procedura di revoca.



Con il varo del governo Conte 2, la gestione del dossier autostrade è stata assunta direttamente dal Presidente del Consiglio, che già in sede di dichiarazioni programmatiche ha cambiato strategia, parlando di “caducazione” della concessione, un termine che equivale a “decadenza”, indicando così che il Governo si sarebbe mosso nella direzione indicata dall’art. 9.

Ricordiamo quindi brevemente quale sia la differenza, ripassando un po’ la grammatica: “io revoco la concessione”, verbo transitivo, con un soggetto ben preciso che compie l’azione, in questo caso il Governo. “La concessione decade”: verbo intransitivo, dove il soggetto è la concessione e il Governo è quasi spettatore di un evento che colpisce “naturalmente” la concessione. Dice, infatti, la norma che se il concessionario in modo reiterato continua a non fare ciò che deve, alla concessione viene a mancare un presupposto indispensabile e “decade”. Si tratta quindi di valutare se “perduri la grave inadempienza del concessionario agli obblighi” tra cui il primo è “il mantenimento della funzionalità delle infrastrutture concesse attraverso la manutenzione e riparazione tempestiva delle stesse”.



Le notizie di stampa relative agli accertamenti della magistratura sul sistema di controllo e di gestione delle manutenzioni fanno sorgere il legittimo sospetto che la mancata individuazione delle situazioni di degrado delle strutture e i mancati interventi di manutenzione non fossero un caso isolato, ma il frutto di un consolidato modo di operare: in questo caso, quindi, non ci troveremmo di fronte a un singolo evento, pur molto grave, ma al “perdurare di gravi inadempienze”, proprio la causa che può far decadere la concessione. Paradossalmente, una conferma in tale direzione sembra venire proprio dalla lettera aperta che la famiglia Benetton ha pubblicato nei giorni scorsi.

Questa è quindi la strada che il governo sembra intenzionato a percorrere, strada tuttavia molto complessa, di cui è necessario valutare bene la concreta percorribilità. Il primo aspetto critico sono i tempi: attendere il giudizio della magistratura per poi agire di conseguenza sarebbe un modo di procedere prudente e sicuro, ma richiederebbe tempi che non appaiono compatibili con le esigenze della politica.

Il secondo aspetto, molto più concreto, è un problema di soldi. Conviene a questo proposito leggere cosa dice l’art. 9, che sintetizziamo per comodità, rinviando alla lettura della convenzione per una più analitica disamina. La convenzione, innanzitutto, prevede che, in caso di decadenza lo Stato “subentra in tutti i rapporti attivi e passivi”; in parole semplici deve farsi carico dei mutui accesi per la costruzione delle autostrade, pari a 8,8 miliardi (relazione finanziaria di Autostrade al 31 marzo 2019), aumentando così il proprio indebitamento già critico. Deve poi pagare ad Autostrade per l’Italia una somma pari al valore attuale degli utili netti che si prevede matureranno fino alla scadenza, decurtata del 10% a titolo di penale, salvo il maggior danno subito. Difficile immaginare quale possa essere l’entità dell’onere a carico dello Stato, anche se fonti giornalistiche stimano che “lo Stato subentrando dovrebbe pagare ad Atlantia una cifra stimata tra 15 e 20 miliardi. Una cifra, che si legge, sarebbe «decurtata, a titolo di penale, di una somma pari al 10%» e quindi si parla di una penale per la società sui 1,5-2 miliardi” (Il Sole 24 Ore, 16 agosto 2018).

Allora si comprende bene perché, i giuristi del ministero incaricati dal ministro Toninelli di dare un parere, dopo avere affermato per 64 pagine che la rescissione senza oneri è possibile, nell’ultima pagina, quasi in fondo, scrivano: “i possibili rischi evidenziati (…), potrebbero comunque consigliare una diversa soluzione, rimessa alla valutazione politica o legislativa, volta alla rinegoziazione della stessa Convenzione”.

Ecco quindi il percorso che sembra delinearsi: una “delegificazione”, per annullare la legge 6 giugno 2008 e riportare l’approvazione delle convenzioni autostradali nell’ambito degli atti amministrativi e poi una trattativa che porti a un assetto gestionale in linea con le indicazioni dell’Autorità di regolazione dei trasporti (Art) che prefigura un sistema “Rab based con price cap”, in parole semplici basato su di una remunerazione prestabilita dei capitali investiti con un sistema di contenimento dei prezzi per indurre efficienze operative.