Confezionato (si dice) con lo scopo di indennizzare le Assemblee parlamentari (soprattutto la Camera, ove ha infatti preso l’avvio l’iter di conversione) il d.l. n. 162/2019 (c.d. milleproroghe) contiene ben poche disposizioni che trovano una qualche giustificazione nella straordinaria urgenza di provvedere e, invece, molte norme di carattere c.d. ordinamentale, intese cioè a modificare stabilmente la legislazione vigente: e in effetti l’eterogeneità delle misure suggerisce qualche analogia con la Legge di bilancio.



Nonostante gli interventi della Corte costituzionale, ormai numerosi, le maggioranze (di vario colore e di vario tipo) non manifestano sensibilità alle sanzioni del Giudice delle leggi, essendo più forte la spinta a surrogare la (in)stabilità dei patti fiduciari con gli agglutinanti topici rappresentati dalla questione di fiducia e, appunto, dalla decretazione di urgenza. Ma non è questo il profilo sul quale vogliamo richiamare l’attenzione del lettore, perché il decreto milleproroghe presenta vizi di legittimità costituzionale persino più gravi.



Ne è un esempio il suo art. 35 rubricato Disposizioni in materia di concessioni autostradali, disposizione che (secondo quanto ha rilevato anche l’Ufficio studi della Camera) si riferisce, infatti, a un caso concreto, quello del ponte Morandi, consumatosi ormai molti mesi or sono e, dunque, non tale da legittimare il ricorso alla decretazione d’urgenza, del resto privata di fondamento dal concreto contenuto della volizione normativa, intesa, a ben vedere, a incidere su una fattispecie controversa, prima che si addivenga a un giudizio  che si teme sfavorevole: la norma dispone infatti il mutamento autoritativo del quadro contrattuale (benché liberamente negoziato e convenuto), rendendolo più favorevole allo Stato concedente per l’ipotesi di estinzione anticipata della concessione a seguito di contestazione di inadempimento del concessionario, che è quanto il Governo ha più volte dichiarato di voler fare.



Le modalità a tal fine escogitate contrastano con diversi articoli della Carta costituzionale (artt. 3, 23, 24, 41 e 42 Cost.). Si apparecchia un meccanismo sostitutivo di clausole contrattuali, quale che ne sia la natura e anche se approvate per legge, decretandone la nullità con l’ambigua formula “da intendersi come nulle“, senza alcun riferimento a norme preesistenti suppostamente violate, e senza porre, sia pure ex post, ma con effetti pro futuro, una nuova disposizione sostanziale capace di inficiare le clausole anteriori con essa contrastanti. Il risultato perseguito attraverso l’imposizione di una sorta di presunzione assoluta di nullità, con applicazione impropria della logica induttiva al di fuori dell’ambito probatorio in cui ha legittima cittadinanza, mira a sostituire per rescriptum principis  l’accertamento giurisdizionale, di cui inibisce lo svolgimento.

L’esito del prevedibile giudizio, a seguito di contestazione della Società concessionaria, è già anticipato e, pertanto, lo Stato è assolto (o meglio: si autoassolve) dall’onere di provare che vi sia un effettivo contrasto tra le condizioni contrattuali a suo tempo stipulate e una qualche norma imperativa preesistente attinente all’ordine pubblico o al buon costume (e quindi a interessi prevalutati idonei a legittimare la compressione dell’autonomia negoziale, tutelata dall’art. 41 Cost.). E fa difetto, d’altra parte, ogni effettiva sostituzione di disposti negoziali.

La norma intende infatti giovarsi degli effetti della sostituzione automatica di clausole (benché non ne abbia neppure i contenuti, ove solo si consideri che l’unico riferimento “materiale” è all’art. 176, co. 4, lett. a), d.lgs. n. 50/2016, cioè a un mero criterio di commisurazione delle spettanze del concessionario a seguito di revoca della concessione per inadempimento del concedente o per motivi di pubblico interesse) al solo fine di determinare l’applicazione delle conseguenze di cui all’art. 1419, co. 2, c.c.  e così attingere il risultato della suddetta alterazione modificativa, senza possibilità di reazione e tutela della controparte privata. 

Siamo insomma di fronte a un vero e proprio paralogismo (a non voler credere che si tratti di un deliberato sofisma): la nuova disposizione presuntiva contestualmente adottata dovrebbe per intero e satisfattivamente corrispondere al rigoroso regime codicistico della nullità parziale di cui all’art. 1419, co. 2, c.c. (quella, per intenderci, che consente la “sopravvivenza” del contratto in ragione della surrogazione delle clausole nulle con altre viceversa valide). Così operando, l’art. 35 si innesta su un atto di autonomia, riducendolo a mero consenso iniziale di adesione, perché la (simulata) integrazione inibisce alla parte privata di giovarsi della previsione di cui all’art. 1419, co. 1, che viceversa sancisce la nullità dell’intero contratto nel caso in cui il vizio infici una parte del contenuto senza la quale i contraenti non avrebbero concluso il patto, che è un precetto manifestamente ispirato ai canoni di equità e di eguaglianza e, dunque, conforme all’art. 3 Cost.

La norma stabilisce che le clausole colpite siano da intendersi come nulle ai sensi dell’art. 1419, co. 2, c.c.: un pudico escamotage lessicale che vorrebbe forse coprire, oltre all’assenza di norme imperative violate (e più ampiamente di interessi la cui lesione possa razionalmente giustificare la sanzione massima della nullità e, più ancora, l’ortopedia di rimpiazzo che, come si è visto, lascia sopravvivere il consenso negoziale senza alcuna considerazione per l’oggetto effettivo e sostanziale della volizione originaria), l’ulteriore forzatura della posteriorità delle clausole in sostituzione rispetto a quelle sostituite, in contrasto con l’art. 1419 c.c.

La conversione del decreto, in parte qua, consumerebbe in definitiva un “attentato” alla funzione giurisdizionale e all’autonomia negoziale, consolidando quello già perpetrato dal Governo. Se le clausole fossero veramente nulle, basterebbe, infatti, che la parte pubblica lo allegasse e ne desse dimostrazione, evitando l’abuso del potere legislativo.