La questione Atlantia è riesplosa a pochi giorni dalla fine dell’anno dopo che il Governo italiano ha approvato una norma con cui vuole rendere meno onerosa la revoca della concessione. Ricordiamo che la convenzione tra Stato italiano e Autostrade per l’Italia prevede che al concessionario venga corrisposta una somma paria a tutti i redditi operativi che la concessione genererebbe dal momento della revoca fino alla sua conclusione (2038). La norma sarà con ogni probabilità impugnata in tutte le sedi possibili e immaginabili perché costituirebbe un cambiamento unilaterale del contratto originale. Questo è l’ultimo capitolo di una vicenda che si è aperta dopo il crollo del ponte Morandi e che nei mesi ha decisamente virato verso il peggio quando le indagini della magistratura facevano emergere comportamenti “sorprendenti” da parte del concessionario con regole di compilazione dei report sulla sicurezza di ponti e opere decisamente rivedibili per usare un eufemismo. Vi risparmiamo i dettagli, ma i giudici sembrano convinti che ci siano state violazioni molto gravi.



Il problema del Governo italiano è come agire in un settore che è palesemente sfuggito di mano perché quelle concessioni hanno prodotto profitti miliardari nonostante il Paese declinasse paurosamente e l’infrastruttura nella migliore delle ipotesi subisce una manutenzione ordinaria che non risolve il problema di un traffico infinitamente superiore a quello di 30 anni fa. Ci sarebbero i soldi per rifare tutto, ma il meccanismo non funziona. È il frutto di una stagione e di un’idea che continua ancora oggi che vede nel “privato” e nel “mercato” un soggetto senza macchia e senza paura che non ha bisogno di controlli o di avere il fiato sul collo. La “mano invisibile del mercato” ci assicurerà la buona manutenzione e ricchissimi premi. Nel resto del mondo è rarissimo trovare schemi così sbilanciati sul “privato” in settori infrastrutturali. Non in Germania, non negli Stati Uniti per fare due nomi.



Tornando ad Atlantia il problema è complicato perché la concessione scade nel 2038. In teoria se valesse l’assunto che il contratto non è modificabile l’Italia dovrebbe rimanere con questo concessionario e soprattutto con regole che palesemente non funzionano bene per altri 20 anni. È decisamente troppo tempo. La seconda questione è come conciliare le esigenze dello Stato italiano con un processo che sarà lunghissimo. Il terzo è che approccio si può avere verso un concessionario di cui si è persa, con diverse ragioni, la fiducia e verso un contratto che non può lasciare tranquilli. L’ultima questione che forse è quella decisiva è cosa fare se si arrivasse alla conclusione che quello che è emerso dalle indagini non rende possibile proseguire nello schema attuale perché il contratto è pessimo per lo Stato italiano e genera profitti ingiustificati. Il problema non sono i profitti, per carità, ma essi non coerenti con la gestione di un monopolio in cui né prezzi, né volumi sono praticamente in alcun modo controllabili dal concessionario.



L’impressione è che nonostante norme dell’ultimo secondo e proclami il Governo non abbia pronta un’opzione B. Il tempo non lavora in favore dell’esecutivo perché quando la tua controparte ha in mano un contratto che dura altri due o tre decenni sei tu quello che deve avere fretta. Ma se “vuoi avere fretta” devi aver preparato tutto perfettamente, tutti i passaggi, tutte le svolte. Le sparate sono un’assicurazione sulla vita per chi vorresti “colpire” o la sicurezza che tutto rimarrà com’è.