Il “decreto energia”, che doveva essere approvato dal Consiglio dei ministri questa settimana, è stato rinviato alla prossima. Tre sono le ragioni che avrebbero causato il rinvio. La prima riguarda il rinvio di sei o dodici mesi della fine del mercato tutelato. La seconda è l’accordo sull’individuazione di due porti, al sud, in cui convogliare gli investimenti necessari per lo sviluppo dell’eolico offshore. La terza riguarda la possibilità per gli attuali concessionari di rinviare la scadenza delle concessioni idroelettriche a fronte di un piano di investimenti. Il contenuto del decreto energia metterebbe in pericolo, e questa è la ragione vera del rinvio, l’erogazione della terza rata dei fondi europei del Pnrr per un importo di 18,5 miliardi di euro.
La fine del mercato tutelato, rinviata per anni, è un evento particolarmente impattante per il numero di consumatori coinvolti ma non per le loro bollette. Il mercato negli ultimi mesi è cambiato profondamente e la “nuova normalità” è fatta di contratti a prezzo variabile in cui il costo caricato dal gestore, per la fornitura, non cambia sostanzialmente le bollette; soprattutto in una fase di prezzi dell’energia alti. Un rinvio di sei mesi non dovrebbe irritare particolarmente l’Europa.
Diverso il discorso delle concessioni idroelettriche. Nel nuovo mondo delle rinnovabili esse rivestono un ruolo cruciale. I bacini idrici sono quanto di più simile ci sia a una batteria; la produzione idroelettrica è sicuramente la più programmabile tra le fonti rinnovabili. Per l’Italia e per il suo sistema energetico il settore è strategico ed è singolare che il suo sviluppo sia relegato alla fine della lista dopo il solare e soprattutto l’eolico che ha enormi problemi di programmabilità.
Non è chiaro quale sia la relazione tra fondi europei e messa a gara delle concessioni idroelettriche. Si suppone che l’Italia si sia impegnata a fare “riforme”. Quello che è chiaro e che operatori finanziari e industriali esteri hanno una potenza di fuoco maggiore degli attuali titolari domestici. Non si devono destreggiare, come le utility italiane, con le problematiche che comporta un’ampia clientela retail che le mette al centro della politica o delle mire dell’Agenzia delle Entrate, né con le richieste del sistema che le percepisce, in qualche modo, al servizio della collettività. La capacità finanziaria, anche per un minore costo del debito, è sicuramente migliore per un operatore internazionale non fosse altro per i problemi che ciclicamente affliggono lo “spread”. Il vincolo non è la capacità di investimento industriale quanto l’investimento iniziale per la componente finanziaria dell’operazione.
In un mondo di scarsità energetica, soprattutto in Europa, di produzione elettrica rinnovabile intermittente, l’idroelettrico offre tentazioni irresistibili per un operatore finanziario. I ritorni economici potenzialmente generosi sono protetti dalla strategicità che l’idroeletrrico riveste all’interno del sistema energetico. L’Italia avrebbe ogni interesse a scegliersi gli azionisti; nella storia italiana, anche recente, i monopoli naturali gestiti da azionisti privati non sono sempre stati un successo. Dall’inizio della crisi energetica europea nel Vecchio continente si è assistito a operazioni di nazionalizzazione di grandi operatori energetici sia in Francia, nel nucleare, che in Germania. In questi casi la legislazione europea ha ceduto a ragioni di emergenza o di sistema.
La questione evidentemente è politica. I fondi del Pnrr non sono gratis, né finanziariamente, né politicamente. Dall’altra parte c’è l'”Europa”, un’idea che ognuno è libero di riempire di contenuti a piacimento, dietro cui spesso si nascondono interessi molto meno che ideali e Stati con un nome e un cognome. Come minimo quello che manca è un briciolo di reprocità. Dalla cantieristica, alla difesa, dalle banche all’energia quando le cose contano davvero l'”Europa” spesso evapora.
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