L’ennesimo tentativo di riformare il fisco non deve rappresentare il momento per affermare che si vuole perseguire unicamente la legalizzazione dell’evasione. La nuova architettura proposta punta sulla collaborazione fisco-contribuente che deve trovare la giusta sintesi e non va introdotta prima che siano definiti tutti i decreti attuativi. Non serve una riforma che non si può applicare. Il passato recente è pieno di esempi in questo senso: l’Iri (Imposta sul reddito di impresa introdotta nel 2017 e mai attuata), la transazione fiscale sempre disattesa dall’AdE e occasionalmente “imposta” dai Giudici, il contraddittorio preventivo osteggiato dall’AdE e talvolta disatteso anche dalla Giustizia tributaria, ecc.
In questi giorni il confronto politico si è concentrato sull’introduzione del concordato preventivo biennale (Cpb), sulla rimodulazione della cedolare secca e sulla rivisitazione del sistema sanzionatorio. Quest’ultima è stata bollata come uno strizzare l’occhio agli evasori dimenticando come essa sia stata più volte “sollecitata” anche dalla Corte Costituzionale. Da ultimo, infatti, la Corte, con l’ordinanza n° 190/2023, ha compulsato il legislatore affinché ridefinisca il sistema, oramai fuori controllo, della riscossione delle imposte che sfuggono ai versamenti spontanei.
Il Cpb rappresenta senza dubbio lo strumento su cui punta il Governo per dimostrare la volontà di voler cambiare il sistema. L’obiettivo dichiarato è quello di ridurre le diffuse e inefficienti attività di accertamento postume che finiscono per colpire sempre gli stessi con incassi mai in linea con le imposte accertate. La proposta si fonda su un confronto preventivo fisco-contribuenti che valorizzi, attraverso uno scambio di informazioni tra le parti, le informazioni contenute nelle banche dati disponibili. Le possibilità di successo sono legate alla capacità del fisco di declinare correttamente le aspettative: solo così la convenienza ad aderire sarà reciproca.
L’istituto, al momento riservato ai contribuenti giudicati più “affidabili” prevede che il fisco formuli al contribuente una proposta di tassazione valida per due anni. I benefici sono l’esenzione dalla tassazione degli eventuali maggiori redditi conseguiti rispetto a quelli concordati, l’impossibilità per il fisco di procedere ad accertamenti basati su presunzioni semplici, la decadenza abbreviata degli accertamenti, l’incremento delle soglie per godere dell’esonero dal visto di conformità per le compensazioni e i rimborsi ecc. I contribuenti, dal canto loro, dovranno sobbarcarsi il rischio di non raggiungere il reddito concordato senza che a ciò segua una riduzione delle imposte, dal momento che l’uscita dal concordato sarà possibile solo in casi eccezionali quali la riduzione del reddito o del valore della produzione di oltre il 60% rispetto ai livelli su cui è fondata la proposta. I contribuenti dovranno altresì proseguire nell’assolvimento degli adempimenti contabili e dichiarativi previsti dalle norme vigenti e la liquidazione dell’Iva continuerà a seguire i meccanismi ordinari.
Da quello che si legge si dovrebbe partire dal 2024, tra marzo e aprile, partendo con lo scambio di informazioni tra fisco e contribuente, successivamente verrà formulata la proposta e in cinque giorni dovrà esserci l’adesione del contribuente. Questa brevissima previsione temporale, cinque giorni, appare poco giustificata se lo spirito è valorizzare la collaborazione fisco-contribuente.
Come spesso accade, a complicare il cammino della riforma è la superficialità con la quale si critica ogni intervento proposto in tema di fisco. Ne sono esempi le critiche mosse alle proposte di innalzare l’aliquota della cedolare secca e di rivedere la tassazione degli immobili che hanno usufruito dei bonus fiscali. Ambedue le proposte, infatti, contengono elementi di equità. Una maggiore tassazione dei redditi di locazione soggetti a cedolare, infatti, renderebbe “giustizia” a coloro che lo stesso reddito lo maturano per effetto di lavoro. La tassazione di coloro che hanno usufruito dei bonus edilizi invece non è una novità assoluta e chi la contrasta in molti casi ha sponsorizzato la riforma indiscriminata del catasto. È già previsto, infatti, che in occasione di diffusi programmi di riqualificazione del territorio (costruzione di nuove strade, sistemi di trasporto, strade, ecc.), finanziati con la spesa pubblica, si proceda alla riformulazione delle rendite catastali e, dunque, della tassazione indiretta. Se ciò è vero non si comprende perché chi riqualifica, anche qui con risorse pubbliche, la propria unità immobiliare non debba “restituire” nel tempo un po’ di quanto ha ricevuto. Le risorse acquisite, infatti, servirebbero per nuovi interventi redistributivi.
Lo scenario politico attuale conferma che la riforma fiscale potrà realizzarsi solo se sarà accompagnata da una rivoluzione culturale che non deve necessariamente andare contro i principi costituzionali. Non va attuato, quindi, un disgregamento dell’attuale assetto e si dovrà rispettare il principio costituzionale della capacità contributiva. Non è una missione impossibile, ma non bisogna aver fretta di introdurla, da un lato, e di criticarla, dall’altro.
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