È notizia di qualche giorno fa che Profumo, attuale amministratore delegato di Leonardo, è stato condannato in primo grado alla pena di 6 anni di detenzione nel processo sulla contabilizzazione dei derivati Montepaschi, in relazione al periodo in cui ne era presidente. La sentenza lo ha altresì condannato alla pena accessoria di 5 anni di interdizione dei pubblici uffici e due di interdizione dalla contrattazione con la Pubblica amministrazione e dalla rappresentanza delle società.



Al di là del merito della condanna, su cui certamente non si intende in questa sede operare alcuna valutazione, e fermo restando l’inviolabile principio della presunzione di non colpevolezza fino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la vicenda pone all’attenzione dell’opinione pubblica un tema che fino a qualche tempo fa, in epoca diciamo pre-Covid, avrebbe di certo destato un interesse assai maggiore.



Come si diceva, non è la condanna in sé sulla quale ci si intende soffermare, ma sulle conseguenze da essa derivanti e in particolare sulla posizione espressa dall’azienda che Profumo amministra, la quale ha di fatto palesato la ferma intenzione di non mettere in discussione il ruolo del suo amministratore delegato. Leonardo ha infatti diramato una nota in cui specifica che Profumo non sia affatto obbligato a dimettersi, come una parte dei Cinquestelle ha subito richiesto, in quanto la condanna non è definitiva e lo statuto non prevede regole più stringenti di quelle generali.



La posizione espressa appare tecnicamente ineccepibile, preso atto che il codice etico di Leonardo alcuna particolare previsione contiene e che la direttiva del Mef sui requisiti di onorabilità previsti per i manager di Stato non prevede alcuna particolare previsione a tale riguardo. Alcuna norma, pertanto, né aziendale né tantomeno di origine statuale, impone a Profumo di dimettersi dalla sua carica.

Effettivamente, l’attuale direttiva del Mef, azionista di controllo di Leonardo, in merito ai requisiti di onorabilità lascia strada libera a Profumo e ciò, invero, grazie alla modifica introdotta dall’ex ministro Pier Carlo Padoan, che due giorni prima di lasciare il suo incarico modificò la direttiva del predecessore, Fabrizio Saccomanni, eliminando i requisiti rafforzati di onorabilità, che prescrivevano, per un verso, l’ineleggibilità per chi fosse rinviato a giudizio, tra l’altro, per reati finanziari o corruzione e per altro verso la decadenza per chi avesse subìto una condanna anche non definitiva.

Ricordato che di questa nuova direttiva ha beneficiato lo stesso Profumo già all’epoca della sua nomina (essendo gravato dal rinvio a giudizio per usura bancaria da parte del Tribunale di Lagonegro), oltre che Claudio Descalzi (accusato di corruzione internazionale per la vicenda del giacimento in Nigeria), appare evidente come questa vicenda evidenzi una certa ipocrisia della politica.

Mentre infatti, da un lato, si sbandierano le riforme “spazza-corrotti”, con inasprimento di pene e rafforzamento di strumenti di indagine tipo trojan, dall’altro lato si estende una sorta di ombrello protettivo a quei manager che per conto dello Stato gestiscono strategiche società per azioni quotate in Borsa.

Non è questa, riteniamo, la sede per stabilire quale sia la scelta più opportuna, ma di certo l’oscillazione del pendolo appare evidente anche ai più distratti.

Ma il pendolo oscilla anche nei board delle singole aziende di Stato. Nella stessa Leonardo, ad esempio, la “clausola etica” prima è stata inserita, poi tolta dal codice etico aziendale. In Trenitalia il pendolo si è trasformato in trottola: la clausola è stata infatti prima inserita, ma con la previsione che il Cda potesse valutare la gravità del rinvio a giudizio, poi nel giugno 2018, quando l’allora Ad, Renato Mazzoncini, fu rinviato a giudizio per una vicenda legata ai contributi statali a una partecipata delle Fs, il Cda prima lo “assolse” confermandogli la fiducia, ma poi chiese all’azionista Mef e al vigilante ministero dei Trasporti di sopprimere la clausola etica, innescando così la decisione dell’allora neo ministro Toninelli di far decadere l’intero Cda, consentendo al governo giallo-verde di nominarne uno del tutto nuovo.

Quando si dice avere le idee chiare… A rischio di essere tacciati di esterofilia, appare superfluo rilevare che un simil balletto nei paesi in cui l’etica è davvero radicata non sarebbe neanche concepibile.

D’altronde, come non ricordare che la legge Severino (fra l’altro istitutiva dell’Anac) ha introdotto la decadenza per le cariche pubbliche in caso di sentenza di primo grado per taluni reati. Ma quella stagione, che comunque esprimeva un progetto e palesava una certa coerenza, pare davvero vecchia di un secolo.

In qualunque modo la si pensi, a fissare il pendolo si rischia di patire un certo mal di mare. Difficile quindi dar torto a chi si gira a guardare altrove.