Confindustria festeggia 110 anni. Un’età adulta che mostra quanto sia intrecciata la storia dell’associazione imprenditoriale con quella del Paese da prima che scoppiasse la Prima guerra mondiale a oggi. Le celebrazioni di Torino, dove il sodalizio è nato, sono state affidate alla sapiente regia di Paolo Mieli che le ha organizzate sul modello delle sue celebri lezioni di storia sulla Rai.



Ne viene fuori un affresco intenso e avvincente. Soprattutto, un affresco di largo respiro dove tutto si tiene e si giustifica, con le figure e gli sfondi del passato che si integrano alla perfezione con gli sviluppi e i protagonisti dei giorni nostri. Ci si rende conto di come un’intelligenza comune tenga insieme tante esperienze e le qualifichi come tessere di una grande immagine che si va componendo.



Come nella fisica, anche in questo caso nulla si crea e nulla si distrugge. E la Confindustria di oggi – che rivendica con forza il suo ruolo di attore sociale, ponte tra gli interessi delle imprese e quelli del Paese – affonda le radici nell’organizzazione che già nel ’45, in piena ricostruzione postbellica, poneva la salute delle fabbriche e il lavoro che ne scaturiva al centro delle sue preoccupazioni.

La crescita dell’economia è stata ed è il punto di approdo di tutte le azioni messe in campo perché sia chiaro che un Paese privo di materie prime e di fonti energetiche non ha altro modo per arricchirsi che rendere competitiva la sua manifattura. Cosa che gli imprenditori italiani sono riusciti a fare piazzandosi ai primi posti per reddito in Europa e nel mondo.



Tutto questo nonostante i lacci e i lacciuoli che Guido Carli già denunciava come ostacolo allo sviluppo in una nazione che nonostante i successi ottenuti e il benessere diffuso raggiunto – basta guardare le foto di metà secolo scorso per rendersene conto – resta incredibilmente imbevuta di cultura anti-industriale come molti episodi attuali s’incaricano di confermare.

Affonda in quella consapevolezza la politica dei fattori rilanciata dall’attuale presidente Vincenzo Boccia fin dalla sua prima relazione e che rappresenta la base su cui poggia l’impalcatura di Industria 4.0: un sistema d’incentivi che ha dimostrato di saper funzionare, quando ha funzionato, come straordinario catalizzatore e acceleratore d’investimenti.

Anche la grande manifestazione del dicembre 2018, neanche a farlo apposta ancora a Torino – quando Confindustria e altre undici categorie produttive si batterono unite per la crescita, gli investimenti e la Tav capovolgendo i rapporti di forza col Governo – è figlia della costante difesa dei corpi intermedi cui la Costituzione attribuisce un ruolo fondamentale per la tenuta della democrazia.

Per non parlare del Patto della Fabbrica firmato con Cgil, Cisl e Uil con l’intento di costruire un nuovo modello di relazione industriale, che punti sul confronto anziché sullo scontro, e che idealmente si rifà all’intesa che nacque all’indomani della Seconda guerra mondiale tra il presidente Angelo Costa e il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio: prima le fabbriche e poi le case.

Oppure della vocazione internazionale che un Paese fondatore dell’Europa deve avere l’ambizione di coltivare in campo economico, politico e diplomatico come Confindustria non ha esitato a fare intensificando i rapporti con le organizzazioni imprenditoriali dell’Unione, in particolare di Francia e Germania, e della sponda africana nel Mediterraneo.

Insomma, gli spunti di riflessione e gli intrecci con la cronaca delle tante epoche attraversate sono davvero molti e tutti facilmente rintracciabili per chi volesse addentrarsi nella trama del racconto. È vero, accanto alle molte luci si può scorgere anche qualche ombra: solo chi non fa non sbaglia. Ma un’Italia senza Confindustria sarebbe certamente più povera anche di pensiero.