Il tema della classe dirigente, è noto, è uno dei problemi cruciali del Paese. Che la politica, tra l’uno vale (o valeva?) uno dei grillini, il poco o nulla dietro la macchina comunicativa di Salvini, la leggerezza scivolosa delle Sardine e l’arrocco del Pd nelle Ztl dei centri storici, abbia ridotto il Governo e il Parlamento a un impotente chiacchiericcio e a una stanca ratifica degli atti dovuti in Italia e in Europa, mentre non c’è un solo dossier di crisi che sia stato risolto, è cosa ampiamente risaputa. Che anche Confindustria, storico ritrovo dei “poteri forti” e comunque una delle pochissime istituzioni della Prima Repubblica capace di farsi valere anche nella Seconda, ora perda colpi è una novità relativamente recente. Ma improvvisamente rivelatasi con le cinque candidature parallele alla successione di Vincenzo Boccia, una difficoltà a fare sintesi che potrebbe creare molti problemi di rappresentatività a chi poi la spunterà. 



Se anche gli imprenditori e la loro storica associazione vengono risucchiati nella palude italiana, in una transizione che non porta da nessuna parte se non a un’altra transizione, è evidentemente un problema in più per il Paese. Per questo, per la rilevanza di una battaglia che potrebbe essere anche un segno di vitalità del sistema confindustriale (e per non cadere nella trappola della comunicazione dei diversi candidati, tesa più a mettere in cattiva luce gli altri che a spiegare le differenze programmatiche), Il Sussidiario ha chiesto a una nota imprenditrice di raccontare in esclusiva la corsa vista dall’interno del sistema. Il nostro obiettivo è fornire un racconto il più possibile oggettivo della competizione, e soprattutto stimolare una discussione aperta sul ruolo di Confindustria nel Paese non tanto tra i candidati, che per statuto non possono esporre il proprio programma se non nelle sedi interne, quanto tra gli imprenditori. Ecco il primo articolo di Veronica Associata (il nome che la nostra redazione ha scelto per la nostra interlocutrice): ci svela intanto come vengono visti i candidati dai loro colleghi, con particolare attenzione ai difetti e non soltanto ai pregi che, dice, si danno per scontati.



Posso dire di conoscerli bene, perché nell’ultimo decennio ho seguito da vicino i riti e i miti non solo di viale dell’Astronomia a Roma, il palazzo progettato negli anni ’70 del 900 dall’architetto Spadolini, ma sono spesso transitata anche per le sedi delle territoriali e delle federazioni di categoria più importanti. Posso dire che molto è cambiato nell’ultimo decennio, in stretta correlazione con due fenomeni: la crisi economica da una parte, l’invecchiamento di una classe dirigente associativa dall’altra, mentre la politica si allontanava dai cosiddetti “corpi intermedi” della società per cercare un’effimera relazione diretta non solo col singolo elettore, ma soprattutto con gli imprenditori più rappresentativi. Per quindi favorire singole situazioni, e magari averne anche i finanziamenti. Un arretramento forte, quindi, visto che Confindustria si occupa di interessi generali anche quando difende un settore in crisi oppure un’altro preso di mira da tasse eccessive e sbagliate. Ed è certo meno efficace se va a difendere o a promuovere singole situazioni, infatti non lo fa. Lo sgangherato leaderismo politico degli ultimi tempi ha invece cercato rapporti diretti con alcuni imprenditori, snobbando la rappresentanza confederale.



Le conseguenze interne: “democratizzazione” tutto sommato più inutile che inefficace di Confindustria con la riforma Pesenti che eliminava il Direttivo, vero punto d’incontro delle esigenze di piccola e grande impresa e, soprattutto, vero barometro dei rapporti con i governi. La Giunta, dilatata dalla riforma nel Consiglio Generale, se necessario riequilibrava le decisioni del Direttivo ed era comunque il “parlamento” di Confindustria. L’infelice riforma ha invece relegato i grandi imprenditori nell’Advisory Board, il quale (non a caso) è caduto in immediato disuso perché ha dato agli imprenditori più grandi la netta sensazione di essere stati messi da parte. E nessuno lo ha, di fatto, più frequentato. Un autogol clamoroso.

E ora? Lascio decidere a chi mi legge se il record di candidature sia un segno tangibile di vitalità del sistema oppure il risultato della frammentazione che ha investito tutta la società italiana e, alla fine, anche l’organismo che meglio aveva resistito ai precari tempi nuovi. E vi faccio anche un po’ di storia: la corsa a due venne inaugurata nel 2000 dal confronto Callieri-D’Amato, uno lo “sceriffo” della Fiat (che fino ad allora aveva egemonizzato Confindustria imponendo anche candidati “piccoli” o piccolissimi come Abete o Fossa, oltre a tradizionali alleati come Pininfarina o Lucchini), l’altro il giovane alfiere delle nascenti “multinazionali tascabili”. D’Amato vinse proprio il giorno in cui Il Corriere della Sera (il cui socio di maggioranza era la stessa Fiat, allora comunque i giornali seguivano le faccende di Confindustria con ben altra attenzione rispetto a oggi) titolava, incredibile a dirsi, “D’Amato ha vinto, Callieri ancora in corsa”. Quattro anni dopo Luca di Montezemolo vinse facile contro il peso piuma Tognana e passò il testimone a Emma Marcegaglia, prima donna a scalare la nostra presidenza. Luca sosteneva di averne aiutato la scalata, ma tutti noi sapevamo che Emma sarebbe stata eletta a prescindere poiché ha sempre saputo gestire al meglio l’influenza  dell’azienda di famiglia nelle territoriali. Nel 2012 si consumò lo scontro “fratricida” tra due grandi imprenditori, Bombassei e Squinzi. Quest’ultimo vinse per pochi voti, ed ebbe a dimostrare che non sempre un grande imprenditore è anche un buon presidente di Confindustria (a sua scusante, va detto che proprio negli anni di Confindustria ebbe a combattere con la malattia). Infine, nel 2016 Vincenzo Boccia, espressione dei piccoli imprenditori, vinse battendo di nove voti Alberto Vacchi, titolare di un’azienda da oltre un miliardo di fatturato.

Ecco dunque chi sono, in rigoroso ordine alfabetico, i cinque pretendenti a un trono comunque da rifondare (ma questo è un discorso che ci piacerebbe capire innanzitutto dai candidati).

Carlo Bonomi.

È il prodotto del declino del capitalismo milanese, un declino soprattutto anagrafico, a cominciare da Diana Bracco e Marco Tronchetti Provera, oggi splendidi ultrasettantenni, che hanno delegato lui a gestire Assolombarda grazie alla sponsorizzazione di Gianfelice Rocca, di cui Bonomi è fornitore tramite Synopo, l’azienda di prodotti biomedicali che presiede. Insediatosi a via Pantano nell’aprile del 2017, dal giorno dopo ha cominciato a farsi vedere alle assemblee delle territoriali di tutta Italia autopredestinandosi alla presidenza di Confindustria. La cosa faceva sorridere finché “il turista di via Pantano” non ha cominciato anche a promettere ai creduloni vice presidenze nazionali, mentre ripeteva che i politici dovevano parlare solo con Assolombarda, dove c’erano i veri imprenditori. Avesse messo il buon momento di Milano a servizio, o perlomeno in coordinamento, con Viale dell’Astronomia sarebbe forse oggi candidato unico alla successione di Boccia. 

Il suo cavallo di battaglia di politica economica (pagare di più i giovani per trattenerli in Italia, mentre il problema è prima di tutto quello di poterli assumerli) è stato ripreso solo da Luciano Vescovi, presidente di Confindustria Vicenza, il quale evidentemente vuol meritarsi la vicepresidenza promessa. Ha molto investito nella relazione con Luigi Abete, pensando che il past president gli avrebbe portato almeno i sei voti di Roma, poi si defilò nella battaglia per impedire l’azione di responsabilità agli ex vertici del Sole e Abete ci rimase male. Poi hanno ricucito, ma ora Bonomi sembra essersi accorto che di voti laziali il presidente di Bnl ne controlla forse uno solo.

Sul piano interno invece assicura che se eletto si dedicherà come una sorta di direttore generale aggiunto al rifacimento della struttura di Confindustria. Bene ha fatto Giuseppe Pasini, l’altro candidato lombardo, a proporgli tra il serio e il faceto di fare il suo “consigliere delegato”, mentre lui giustamente avrebbe fatto il presidente. Ovviamente, Bonomi si è offeso per la traduzione operativa del suo stesso programma.

Quel che non ci è molto chiara è invece la dimensione imprenditoriale del nostro aspirante presidente: nel 2016 compare nella Ocean srl, che controlla Synopo che lui presiede, con una quota del 33,3%, alla pari con altri due soci privati. In sostanza, secondo i dati dell’epoca della  Camera di Commercio di Milano, l’allora candidato alla presidenza di Assolombarda aveva in trasparenza appena il 4,5% dell’azienda che espone sul suo biglietto da visita, la Synopo. Una quota che a monte della piramide societaria corrispondeva a un impegno di capitale di soli 31mila euro. Da allora Synopo è cresciuta sino a 15 milioni di fatturato attraverso acquisizioni mentre lui è diventato anche membro del cda di Dulevo, un’azienda che si occupa di pulizia commerciale, industriale e urbana, cosa che ha adeguatamente pubblicizzato. 

Andrea Illy.

La domanda che ci facciamo tutti è: si può pensare come se nulla fosse di traslocare dalla presidenza di Altagamma, una associazione di qualche centinaio di aziende soprattutto del food e della moda dotate di brand importanti e che vanno molto bene, a quella di Confindustria, 160 mila aziende per il 98,5% piccole e piccolissime, con problemi non facili da risolvere e vittime principali di tutti i mali che affliggono il Paese, dalle tasse eccessive alla burocrazia? Magari anche noi avessimo fatturato e brand tali da poter essere accolti in Altagamma che, come sappiamo, ha anche una “strategia olistica per il Made in Italy”. Andrea che noi abbiamo visto poche volte e da lontano, è figlio della suggestione di qualcuno di noi che vuole il grande imprenditore alla guida di Confindustria, scordandosi che si può essere titolari di aziende dal fatturato rilevante e magari pessimi presidenti di Confindustria, visto che si tratta di due mestieri diversi. E l’esordio pubblico, con una intervista sul Corriere della Sera di lunedì 16 dicembre, non è stato dei più incoraggianti perché si è fatto paladino delle tesi di Greta Thunberg: a parole infatti gli imprenditori sono tutti green, in pratica vedono le compatibilità ambientali come l’ennesimo aggravio sulle proprie aziende. Ciononostante, lo aspettiamo con curiosità alla seconda mossa.

Licia Mattioli.

Superattiva, o almeno così ama farsi vedere, quando entra in modalità da combattimento si incupisce e dice soltanto: “Ciccio stai con me, vero?”. Scelta da Paolo Fresco per guidare l’Unione di Torino, Mattioli diventò vicepresidente nazionale quando la Fiat faceva a meno di Confindustria e  Marchionne decise di non appoggiare Vacchi perché sostenuto da Montezemolo. Si è occupata di internazionalizzazione, e nelle scorse settimane ha portato una delegazione di imprese al Congresso a Washington e a cena all’ambasciata italiana nella capitale Usa. Chi la conosce meglio di me dice che la sua azienda supera in fatturato quella presieduta da Bonomi. Viene descritta come la candidata della continuità con la struttura attuale di Confindustria. 

Emanuele Orsini.

È il presidente di Federlegno, una delle più rappresentative e importanti federazioni di categoria di Confindustria, e ha un’azienda che costruisce strutture in legno, dalle case ai grattacieli. È emiliano, ma con il Salone del Mobile che porta a Rho ogni anno 430 mila buyer da tutto il mondo credo ben rappresenti Milano. A Federlegno, mi dicono gli amici imprenditori marchigiani e brianzoli, si è circondato dei grandi del settore, ha risanato i conti, assieme ai suoi big promuove il Salone anche a Mosca e Shanghai e ha in pancia il progetto della nuova sede della federazione in piena city, dove è anche presidente di Unicredit Leasing. 

In Emilia è sostenuto dalle realtà che rappresentano la regione al suo meglio: le aziende della Motor Valley, a cominciare da Ferrari e Lamborghini, gli imprenditori del food e quelli della ceramica. Nel resto del sistema può contare sulla piattaforma di Federlegno, presente in molte regioni, a cominciare dal Veneto e dalla stessa Lombardia, e sull’apporto di chi lo considera il pivot giusto per rilanciare Confindustria come ha fatto per Federlegno: piccoli, medi e grandi imprenditori uniti e coinvolti nella gestione, rapporto senza complessi con la politica, grande attenzione alle ragioni del business a partire dall’export. Mi dicono anche che ha messo intorno al tavolo un pool di docenti della Bocconi e della Luiss per distillare idee utili a un piano di lavoro sulle cose da fare subito in politica economica. So che sta girando l’Italia per esporre le sue idee, e non trascura il Mezzogiorno sia come tema decisivo per il rilancio del Paese, sia per rispetto dei colleghi locali. Aspetto di confrontarmi con lui per dirvi qualcosa di più.

Giuseppe Pasini.

Come e più di Illy ha un’azienda dai numeri importanti, Feralpi, con oltre un miliardo di fatturato. Ha guidato Federacciai, guida l’associazione di Brescia, ha rotto l’unanimismo che l’altro bresciano, Bonometti, voleva costruire intorno a Carlo Bonomi. Credo debba dividersi proprio con Illy i voti di chi tra di noi ritiene che solo un imprenditore titolare di una grandissima azienda possa oggi guidare Confindustria. Ha fatto un buon lavoro come presidente del Comitato tecnico Energia.

P.S: Infine alcuni retroscena, “appunti” confindustriali da annotare. Ecco gli ultimi:  

1) A Milano proprio non conoscono Pasini, duro come l’acciaio che lavora nei suoi stabilimenti: sono tuttora sicuri di convincerlo a ritirarsi in nome dell’unità della Lombardia su Bonomi.

2) Perchè Bonometti appoggia Bonomi? “Perchè fa quello che diciamo noi”, dice convinto a tutti i suoi interlocutori il presidente di Confindustria Lombardia. E Bonomi resta tra la padella e la brace: vorrebbe ribellarsi all’idea di essere manovrato, ma ha paura di altre crepe nel suo territorio e incassa. Si regolerà di conseguenza  dopo?

3) L’Emilia è il nuovo Veneto, che si divideva sempre e alla fine andava bene se beccava una vicepresidenza? È quello che pensano gli imprenditori locali che non passano tutto il loro tempo in Confindustria osservando le ambizioni di Ferrari, Caiumi e Marchesini. Ma la prima riunione ufficiale qualche settimana fa ha azzerato tutto perché ovviamente in prima battuta bisogna stare con il candidato della propria terra, cioè Orsini. Altrettanto ovviamente, gli altri candidati hanno provato subito a mettere zizzania fra i tre: dateci un nome voi, per noi va bene.

4) Andrea Illy da lunedì 16 dicembre è stato ribattezzato come il “piccolo Greta di Trieste”.