Ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è tenuto alle cose impossibili. Gli antichi romani la sapevano lunga in fatto di regole. Poche e ben scolpite sulla pietra. Dunque, è inutile pretendere quello che non si può materialmente realizzare. Il brocardo sembra calzare a pennello ai fatti dei nostri giorni mentre siamo alle prese con una transizione ambientale che sa tanto di vorrei ma non posso.
Chiariamo, il proposito di abbattere le emissioni di carbonio e di impedire o rallentare il surriscaldamento del pianeta con tutto quello che consegue in termini di vivibilità è e resta sacrosanto. Il tema è come raggiungere l’obiettivo e in quanto tempo senza farci male. Su questo, una parola di verità l’ha detta il neopresidente di Confindustria Emanuele Orsini a valle del recente voto di Bruxelles.
Il fatto è che Ursula Von der Leyen non ha esitato a imbarcare i Verdi per ottenere la maggioranza necessaria a diventare per la seconda volta Presidente della Commissione europea (circostanza che ha causato il pronunciamento contrario del partito della Premier Giorgia Meloni). Attori e osservatori si chiedono allora quanto potrà pesare questa scelta sulle politiche ambientali.
Certo, non avremo più a che fare con un amante dell’Italia che si è poi rivelato il più pervicace sostenitore di soluzioni per noi difficili da digerire come l’ex Commissario Franz Timmermans, uscito malamente di scena, ma il pericolo che quelle istanze radicali possano tornare sulla scena della discussione non sono del tutto svanite. E dunque è bene chiarire subito alcuni concetti chiave.
Il cambiamento è giusto e doveroso, ma non può impattare negativamente sul nostro sistema industriale già alle prese con un’America meno rigorosa nell’intraprendere il cammino e una Cina che si smarca ogni volta che può minacciando i nostri mercati con i suoi prodotti. La cura e la tutela dell’ambiente devono andare di pari passo con la difesa dei nostri produttori.
Questa indicazione, molto popolare tra gli addetti ai lavori, non ha avuto grande fortuna con l’opinione pubblica fortemente condizionata dai diktat dell’Unione. Una cartina al tornasole si è avuta con il comparto dell’automobile che sembrava destinato alla rottamazione per l’insistenza a voler indicare non solo il punto di arrivo ma anche il percorso da seguire.
L’opzione elettrica sembrava dover mettere fuorigioco tutte le altre, comprese quelle che hanno reso robusta la nostra presenza nel settore. Si affaccia insomma, e non più suscitando reazioni negative, il principio della neutralità tecnologica che potrebbe e dovrebbe premiare gli investimenti realizzati dall’Italia su propulsori verdi compatibili con la nostra storia e le nostre preferenze.
Ecco, il nuovo corso di Confindustria questo impianto l’ha ben presente. E Orsini si mostra cosciente del ruolo che deve giocare per garantire spazi di manovra ai suoi rappresentati. I quali, d’altra parte, non dovranno approfittare del momento per politiche dilatorie perché la legittimazione a essere ascoltati nasce dalla responsabilità che sapranno esprimere nel migliorarsi.
Tanto più che gli scenari globali, più incerti del solito, potrebbero subire mutamenti impensabili con il probabile ritorno alla Casa Bianca di un resistente al dettato green come Donald Trump che non fa mistero del suo scetticismo in materia. Il punto è come evitare di fare la parte del vaso di coccio – per quanto bello e sostenibile – tra vasi di ferro al cui urto potremmo frantumarci.
La discussione è aperta. Ed è già un passo in avanti. La consapevolezza dei rischi – di gettare il cuore oltre l’ostacolo da una parte o di restare al palo dall’altra – deve far maturare una posizione ferma e credibile in grado di salvare le famose capre con i classici cavoli. Non farà facile, né indolore. Ma provarci, almeno questo, lo dobbiamo certamente fare, perché il futuro si nutre delle decisioni di oggi.
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