La prospettiva di costruire un patto per la ripresa economica rafforzato dal contributo attivo delle organizzazioni di rappresentanza del mondo del lavoro, auspicato in tempi recenti dal neo Presidente della Confindustria Bonomi, sembra più che mai lontana alla luce delle tensioni che si stanno accumulando nell’ambito delle relazioni industriali. La rottura delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici è l’ultima tappa di un percorso irto di ostacoli, preceduta da una frattura interna tra le associazioni datoriali aderenti alla Federalimentare, parte delle quali ha deciso di sottoscrivere l’intesa per il rinnovo contrattuale per i lavoratori alimentari, in dissenso con la stessa Confindustria.
Secondo una recente indagine dell’Istat, che monitora l’evoluzione dei 73 principali contratti collettivi nazionali, sono oltre 10 milioni, l’82% del totale, i lavoratori in attesa del rinnovo del contratto di lavoro della categoria da oltre 12 mesi. Le implicazioni negative della crisi Covid hanno indubbiamente ristretto la possibilità di mettere sul tappeto delle risposte ragionevoli alle richieste di aumenti salariali, che nei mesi precedenti erano state trovate tra le parti sociali interessate per i settori del credito e dell’energia elettrica e del gas.
La crisi economica ha messo in rilievo un dissenso di fondo tra le parti sociali sulle modalità di gestire la fase di uscita dai provvedimenti amministrativi di lockdown, in particolare sulla necessità di mantenere in atto il blocco dei licenziamenti, e sull’opportunità di utilizzare i rinnovi contrattuali nazionali come leva per incrementare la domanda interna e i consumi. Obiettivo esplicitamente rivendicato dalle organizzazioni sindacali, tanto da avanzare al Governo la proposta di sgravare fiscalmente l’importo dei nuovi aumenti salariali. All’opposto, le tesi sostenute dalla maggioranza delle associazioni datoriali fanno leva sull’oggettiva riduzione dei livelli di inflazione in forte discesa negli anni recenti, e persino negativi in quello in corso, e che hanno in parallelo consentito un incremento tendenziale dei salari reali, lo 0,8% negli ultimi 12 mesi. Una tendenza, secondo le previsioni dell’Istat, destinata a proseguire nel breve e medio periodo, e a comprimere i margini di incremento dei livelli salariali minimi previsti dai contratti nazionali.
L’intesa confederale sottoscritta da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil nel marzo 2018, meglio nota come “Patto della fabbrica” prevede infatti che questi salari minimi debbano aumentare in relazione all’incremento medio dell’inflazione depurato dai costi della energia importata. Di conseguenza, l’oggetto della polemica è la tenuta stessa dell’intesa confederale sottoscritta con l’obiettivo ambizioso di impostare le linee guida di una riforma delle relazioni industriali, associata a quella della verifica della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali che sottoscrivono i contratti collettivi per la finalità di farli applicare erga omnes, e per ampliare gli ambiti di intervento della contrattazione aziendale e territoriale e per incrementare i salari sulla base degli indicatori di crescita della produttività. L’intesa in questione prefigura in modo lungimirante l’esigenza di investire sulle competenze delle risorse umane, per potenziare i livelli di intervento del welfare aziendale e di migliorare la sicurezza nei luoghi di lavoro. Quest’ultimo obiettivo tradotto in modo efficace nell’occasione negli accordi nazionali e territoriali che hanno consentito la ripresa delle attività produttive post-Covid.
Alla luce dei fatti, questa intesa sembra non reggere il primo banco di prova rappresentato dai rinnovi dei contratti collettivi nazionali, probabilmente per l’incapacità stessa delle grandi organizzazioni firmatarie nel portare a sintesi le diverse sensibilità associative interne riguardo il ruolo dei contratti nazionali. Una criticità di non poco conto considerando che la crisi economica in atto, per una serie di ragioni facilmente comprensibili, è destinata ad avere impatti diversificati negli ambiti settoriali, aziendali e territoriali.
Le grandi organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro e dei lavoratori hanno di fronte due alternative: rileggere, anche alla luce delle evoluzioni economiche, e dell’esigenza di salvaguardare i livelli di occupazione, gli obiettivi e le priorità da mettere al centro del sistema di relazioni industriali; ovvero di prendere in seria considerazione l’apertura di una fase conflittuale dagli esiti incerti.
La seconda ipotesi deve mettere in conto un ulteriore sfarinamento degli assetti storici della contrattazione e destinato a generare delle fratture dei livelli di tutela tra i segmenti più solidi del sistema produttivo e quelli più fragili. Uno scenario che comporta anche una politicizzazione dello scontro, e il coinvolgimento del Governo nella funzione di arbitraggio o di sostegno normativo delle specifiche rivendicazioni. Una strada destinata ad ampliare gli effetti nefasti della invadenza delle istituzioni, già evidenti nei provvedimenti, Quota 100 e reddito di cittadinanza, per l’impatto sulla spesa pubblica e sul mercato del lavoro, e nel tentativo di istituire per legge il salario minimo.
L’impegno di rilanciare il Patto per la fabbrica, nelle attuali condizioni, può apparire arduo. Ma probabilmente è l’unica condizione, a mio avviso l’ultima occasione, per rafforzare il ruolo delle parti sociali nella promozione degli interventi che possono concorrere a rafforzare la ripresa dell’economia. La spinta delle innovazioni tecnologiche e organizzative nel medio periodo è destinata a generare una forte terziarizzazione delle attività verso i servizi, con enormi potenzialità di incremento della produttività, dei salari e di impatto qualitativo sulle condizioni di lavoro e di vita. Il passaggio dalle potenzialità alla concreta realizzazione non è affatto scontato. Dipende in gran parte dalla capacità di accrescere le competenze delle risorse umane, di creare ambienti favorevoli per i nuovi investimenti, di contenere i costi sociali delle trasformazioni e di rendere sostenibili le transizioni lavorative. Obiettivi che nessuno degli attori – pubblici, privati, associativi -è in grado di portare avanti in modo autoreferenziale.