Dallo scorso agosto, il decreto legislativo n. 105 del 2022, di attuazione di una direttiva comunitaria relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, ha introdotto una novità di particolare rilevanza dal punto di vista giuridico e, ad avviso di chi scrive, culturale.



Il decreto persegue lo scopo esplicito di «conseguire la condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la parità di genere in ambito lavorativo e familiare»; e lo fa modificando e integrando il d. lgs. n. 151 del 2001, il c.d. Testo unico sulla maternità e della paternità.

In particolare, è stato introdotto un congedo obbligatorio di dieci giorni lavorativi (venti, per i parti plurigemellari), di cui il padre (anche adottivo o affidatario) deve fruire entro l’arco temporale individuato dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi. Per l’aspettativa l’istituto previdenziale assicura un’indennità giornaliera di importo pari al 100% della retribuzione (per le altre condizioni, si può consultare la circolare che l’Inps ha emanato per chiarire gli aspetti applicativi).



Parallelamente è stato esteso anche in favore del padre che abbia fruito del congedo il divieto di licenziamento (già previsto per le lavoratrici madri) entro l’anno di età del bambino; e la previsione della conferma delle dimissioni innanzi all’ispettorato del lavoro, per garantire la volontarietà della scelta, a prescindere dal fatto che abbia fruito del congedo.

La norma pone alcuni quesiti interpretativi, in relazione alla possibilità per il padre dimissionario di poter percepire la Naspi: in passato, in effetti, tale indennità valeva solo per i padri dimissionari, ma solo a condizione che avessero fruito del congedo di paternità c.d. alternativo, che opera in caso di assenza della madre.



Ebbene, l’Inps, con circolare emanata in data 20 marzo, ha chiarito che la misura di sostegno del reddito possa essere erogata anche al padre che ha fruito del solo congedo di paternità obbligatorio. Il che lascia intendere che la misura sarà negata a chi tale diritto non ha esercitato.

È da salutare con favore l’introduzione di una norma del genere, che vuole diffondere una preoccupazione culturale, ossia quella della condivisione della cura dei figli per entrambi i genitori. E peraltro sembra a chi scrive che tanto sia stato fatto con misura: è evidente che, nei primi mesi di età del bambino, la figura materna assume un ruolo preminente nella cura del figlio, ma è positivo che ci sia un’indicazione, da parte dell’ordinamento, della direzione verso la quale il legislatore auspica che la società si orienti (la misura del congedo è abbastanza contenuta).

Ma alcuni aspetti son da chiarire.

La norma non introduce la facoltà ma l’obbligo, per il padre genitore, di avvalersi del periodo di sospensione del rapporto; si tratta dunque di un diritto/obbligo.

Normalmente, invece, i congedi sono sempre stati configurati dal legislatore come diritti dei lavoratori (si pensi, ad esempio, ai congedi di formazione), a meno che non siano coinvolti aspetti relativi alla salute e alla sicurezza. Ad esempio, per le donne gravide nei mesi contigui al parto, vista la situazione di potenziale rischio; o analogamente quando particolari lavorazioni potrebbero mettere a rischio la gravidanza.

E in effetti in questi casi, per rinforzare la precettività dell’obbligo, al diritto delle lavoratrici di astenersi dalla prestazione si accompagna il divieto per il datore di adibire al lavoro le donne gravide o puerpere, visto l’obbligo che su quegli incombe di tutelare la salute dei lavoratori.

Nell’aspettativa obbligatoria ora introdotta invece non rileva la tutela della salute, ma aspetti sociali e di tutela della vita familiare: è dunque impensabile che si possa introdurre un correlativo divieto per il datore di servirsi della prestazione.

Ma come allora può essere fatto rispettare questo obbligo al lavoratore? Si tratta di una lex imperfecta, come si direbbe nei manuali di teoria generale del diritto, che non implica nessuna sanzione a carico del lavoratore (e come detto nessun divieto per il datore di adibire il padre riottoso a esercitare il suo diritto); ma ad avviso di chi scrive il datore, che sia a conoscenza dell’evento (ché se il datore non sapesse nulla della nascita, non gli si potrebbe contestare alcunché), potrebbe essere sanzionato in sede ispettiva nel caso in cui i suoi dipendenti non si siano avvalsi della facoltà.

Dunque, trattandosi pur sempre di un diritto del lavoratore (al cui esercizio il datore non può compulsarlo), sembra che si debba escludere che il datore possa precludere l’accesso in azienda ai lavoratori che non abbiano scelto di collocarsi in congedo imponendo loro la fruizione; o che possa avviare procedimenti disciplinari per spingerli a farlo. Non si tratta di un problema solo teorico, visto che, a quanto mi è stato riferito, se è alta l’adesione dei lavoratori a tale possibilità, soprattutto nei giorni seguenti al parto, c’è pur sempre una (minima) quota percentuale di soggetti che non si è avvalsa del tutto del congedo e una quota (più consistente) che ne ha fruito solo parzialmente per pochi giorni.

Allora, forse, sarà necessario che il datore informi i lavoratori e proponga loro di astenersi dal lavoro nella finestra temporale indicata dalla norma, acquisisca il loro eventuale rifiuto e mantenga traccia di tale rifiuto, per evitare l’applicazione di sanzioni.

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