Nelle ultime ore i leader di due Paesi fondatori della Ue – il presidente francese Emmanuel Macron e la premier italiana Giorgia Meloni – hanno interpretato il loro ruolo nelle rispettive democrazie repubblicane in modo antitetico, fra di loro e anche rispetto alle narrazioni politico-mediatiche correnti su Macron campione della liberaldemocrazia occidentale e Meloni testa d’ariete dei populismi antidemocratici nei sacri recinti della Ue e del G7.
Macron ha deciso di varare “per decreto” un’impegnativa riforma delle pensioni, sottraendosi al confronto parlamentare all’Assemblea nazionale e spingendo il semipresidenzialismo francese ai limiti dall’autoritarismo. Macron (rieletto un anno fa a doppio turno col favore diretto di non più di un francese su quattro e privato della maggioranza parlamentare) si è ritrovato nei panni di un suo predecessore del secondo 900: il generale Charles De Gaulle, primo presidente della Francia semipresidenzialista, tuttora funzionante dal 1958.
Le piazze che stanno contestando la riforma delle pensioni – e ora anche il suo varo “non democratico” – non sono diverse da quelle dei “gilet jaunes” che nel 2019 misero a ferro e fuoco i sabati di Parigi, Lione e Marsiglia per il puntiglio di Macron 1 nel super-tassare i carburanti tradizionali in nome dell’ideologia verde. Soprattutto: non sono diverse dalle piazze che – attraverso un referendum democratico – liquidarono “le General”: che nel maggio 1968 aveva addirittura sondato le truppe francesi di stanza nella vicina Germania per una possibile repressione dei “disordini” provocati a Parigi da operai e studenti. Più di cinquant’anni dopo – per meno di quanto De Gaulle meditasse allora e di quanto Macron stia azzardando oggi – sul banco degli imputati Ue sono l’Ungheria di Viktor Orbán e la Polonia di Andrzej Duda.
Meloni (nata nel 1977, come Macron) ha invece definitivamente gettato alle ortiche – se ce n’era ancora bisogno – i panni di un suo predecessore del primo 900: Benito Mussolini, ultimo premier dell’Italia monarchico-liberale prima di diventarne dittatore dal 1925 al 1943. La premier ha chiesto e ottenuto di poter intervenire al congresso della Cgil, sfidando l’odio pregiudiziale degli irriducibili nostalgici del sindacato “cinghia di trasmissione” del Pci defunto già con la caduta del Muro. Va dato merito indiscusso a Maurizio Landini per aver accolto e offerto libera tribuna a una premier democraticamente in carica (e non ci sono dubbi che Giuseppe Di Vittorio e Luciano Lama avrebbero fatto lo stesso). E sbaglierebbe chi perdesse d’occhio lo “strano incontro” fra la premier di FdI e la Cgil: dimenticherebbe che la destra di Meloni è molto più “sociale” che “economica” e che tra i suoi elettori, lo scorso 25 settembre, non è affatto escluso vi siano stati anche ex iscritti alla Cgil.
A Rimini, Meloni si è presentata poche ore dopo aver approvato in Consiglio dei ministri uno schema di riforma fiscale subito contestato dalla Cgil, ma che la premier non ha avuto esitazioni ad illustrare a caldo alla platea come pensato nell’interesse di tutti gli italiani (anche dei lavoratori dipendenti e dei pensionati). Quarantott’ore prima era parsa voler concedere un immediato confronto istituzionale a Elly Schlein: autonominatasi “leader dell’opposizione” tre giorni dopo essere stata formalmente eletta segretaria del Pd. Il “faccia a faccia” fra Meloni-Schlein – di reciproca legittimazione – è avvenuto in Parlamento, media live: 98 anni dopo che Mussolini sbarrò l’ “aula sorda e grigia” di Montecitorio.
Questi sono i fatti, centoquaranta giorni dopo che Meloni, poche ore dopo il giuramento come premier, aveva sollecitato un incontro con Macron di passaggio a Roma (così si muove il leader di un Paese fondatore della Ue nei confronti di un suo pari). Tre settimane fa, invece, il presidente francese ha platealmente escluso la premier italiana da un incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: quasi fosse la Francia – e non invece l’Italia – la più solida sostenitrice europea di Kiev nella resistenza all’aggressione russa.
PS: in queste ore c’è un altro leader di Paese fondatore della Ue in grossa difficoltà “democratica”. È il premier olandese Mark Rutte: sonoramente battuto al voto amministrativo da BBB, un partito neonato nella rivolta di decine di migliaia di agricoltori e allevatori (da secoli). Tutti quelli condannati alla rottamazione da un progetto (ideologico) del governo dell’Aja sulla transizione verde: letteralmente a colpi di ruspa contro i (presunti) violatori dei limiti alle bioemissioni fissati dall’Agenda Onu 2030.
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