L’embargo al petrolio russo potrebbe far chiudere la raffineria di Priolo, costare il lavoro a 10.000 persone e intaccare considerevolmente la capacità di raffinazione del sistema italiano. L’attenzione su questa vicenda rimane alta perché le conseguenze della chiusura si manifesterebbero in uno scenario di grave rallentamento economico, crisi energetica e difficoltà sul mercato della raffinazione che qualche settimana fa in Francia ha già causato code ai distributori. La chiusura arriverebbe nel peggior momento possibile sia dal punto di vista occupazionale che industriale.



Le raffinerie non funzionano con qualsiasi tipo di petrolio; sono tarate per un particolare mix e questo significa che le forniture possono essere sostituite solo a patto di investimenti ingenti. È la ragione per cui negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno cercato di riattivare i rapporti con il Venezuela nonostante le divisioni geopolitiche. Le raffinerie che si affacciano sul golfo del Messico non funzionano con qualsiasi tipo di petrolio e le scorte di diesel sulla costa orientale sono già ai minimi. Nessuno vuole avere a che fare con centinaia di migliaia di americani in coda per fare il pieno.



Mettere in piedi un piano di rilancio è complicato perché la raffinazione è un settore molto volatile con cicli di margini bassi o bassissimi che possono durare anche anni. Bisogna poi sfidare tutta la letteratura sulla “transizione green” per cui le miniere a cielo aperto di litio o di terre rare vanno benissimo se rimangono in Cina o in Africa, ma di raffinerie non si può parlare. I privati si guardano bene da investire in questo settore anche in un Paese come l’America ricco di soldi e petrolio e che vive sui trasporti privati.

Si è fatta l’ipotesi di lavorare per un’esenzione dalle sanzioni sulla scorta di quanto ha fatto la Bulgaria per salvare il suo polo di raffinazione. Questo è un tema su cui si misura la sovranità di un Paese e il suo buon senso. Il Dipartimento del tesoro americano, non l’Ungheria di Orban, settimana scorsa ha deciso di estendere di altri sei mesi, fino al 15 maggio, le esenzioni ai divieti sulle transizioni finanziarie con controparti russe che riguardano un ampio elenco di materie prime: incluso petrolio, gas naturale e uranio. Non si può fare la guerra avendo alle spalle un sistema economico distrutto per tante ragioni. Una è che la guerra è molto costosa.



Lo stesso Governo che decide una manovra all’insegna dell’austerity, inclusi gli incrementi sulle accise, alla vigilia di una delle peggiori crisi degli ultimi anni per “placare” la crisi finanziaria rischia di perdere 10.000 posti di lavoro e di mettere in crisi la disponibilità di diesel e benzina con cui girano camion e vetture. La scarsità è un parente stretto dei rincari che in questo caso graverebbero su tutti quelli che trasportano beni a qualsiasi titolo. È una bomba sociale ed economica. I piani di investimento da centinaia di milioni sembrano un azzardo in uno scenario in cui il credito si contrae e la propensione a investire crolla in vista del rallentamento. Oltretutto si pone un tema di disponibilità di componenti e di oggettive difficoltà di costruzione in una fase in cui la Francia non riesce a riparare le centrali nucleari neanche nella peggiore crisi energetica degli ultimi decenni.

Se bisogna sopportare tutto nell’ottica del conflitto con la Russia allora bisognerebbe avere l’onestà di dire agli italiani che potrebbero presto o tardi trovarsi senza gas, elettricità o benzina o nell’impossibilità di pagarli. Sembra un’esagerazione, ma la Commissione europea qualche giorno fa ha messo nero su bianco la possibilità di “risparmi di gas obbligatori per assicurare la riduzione della domanda”; una perifrasi forbita riassumibile con il termine razionamenti. Siccome non si può sopportare tutto questo a tempo indefinito ci sembra ci si avvii su un piano inclinato al termine del quale si vede solo la guerra. Quella vera.

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