Il passaggio generazionale in un Paese che vede la maggior parte del proprio Pil prodotto da aziende familiari è evidentemente un tema cruciale. Al riguardo, secondo me, vi sono due macro-aspetti su cui bisogna porre l’attenzione e che tuttora, nei molti incontri e dibattiti svolti su questo tema, vengono troppe volte tralasciati.



Il primo aspetto è che spesso si pensa che il passaggio generazionale avvenga solo di padre in figlio; segno, questo, di retaggio culturale dovuto a uno stereotipo di genere. A differenza di un tempo, tuttavia, bisogna considerare sempre di più il passaggio di generazione da padre a figlia: le donne, invero, si sono rivelate non solo capaci di compiere tale passaggio con successo, ma di portarlo a termine meglio di quanto abbiano fatto gli uomini. Alla luce di ciò, il passaggio generazionale non deve fondarsi su una componente di genere, bensì di merito. Per tale ragione, bisogna avere in mente che fin dall’inizio vi possono essere più possibili strade per effettuare il passaggio:



1) passaggio di testimone alla generazione successiva rispetto a quella del fondatore dell’azienda o di colui che la guida;

2) un passaggio di consegne a manager tramite acquisto di una serie di quote dell’azienda;

3) entrare in un gruppo più grande facendo comprare da questo la propria in modo tale che ciò che è stato fatto dal fondatore non vada disperso, ma prosegua come un piccolo fiume che entra in un mare più grande;

4) farsi comprare da un fondo.

Avere in mente che il passaggio generazionale può dar vita a diverse strade aumenta le possibilità che abbia successo: se non le si considera sin da subito, si ha una limitazione del passaggio generazionale con conseguente fallimento, chiusura, decadimento, implosione dell’azienda.



Il secondo aspetto riguarda un fattore sempre sottovalutato ma intrinseco di un passaggio generazionale, ovvero il fatto che questo non riguarda solo numerici, tecnici, strategici o finanziari, ma è una scelta che impatta fortemente sull’aspetto emotivo delle persone. Più mi occupo di passaggi generazionali andando a formare le nuove generazioni che andranno a guidare l’azienda – media o grande che sia -, più mi rendo conto che vi è una grande battaglia di cui pochi parlano: la battaglia all’interno della testa e del cuore di chi guida l’azienda che deve decidere se, in cuor suo, sia possibile o meno che qualcun altro possa guidare l’azienda al posto suo.

Se la risposta a tale interrogativo sarà negativa, allora saranno inutili tutte le possibilità reali tecnico-giuridiche che qualcuno gli presenterà e, anche qualora avesse accanto un possibile erede a cui lasciare l’azienda, questo rimarrà con in mano un cerino. Viceversa, se alla domanda “è possibile che qualcuno mandi avanti l’azienda senza di me?” risponderà – non dico per forza “sì” – ma con un “forse” di ipotesi positiva, si potranno avviare dei percorsi che, da una parte saranno tecnico-giuridici, e dall’altra innesteranno confronti e dinamiche di Comunicazione strategica per valorizzare tutti gli elementi in campo:

– i valori desiderati del fondatore;

– il Tu, ovvero gli elementi di innovazione, spinta originale che vuol portare chi ottiene il mandato per far proseguire l’azienda.

Questo aspetto è, per quanto intangibile, enormemente importante. Basti pensare che, a un bellissimo incontro di Assolombarda, è stato condiviso questo dato, ovvero che tra tutte le aziende di taglio familiare il 70% non ha né pensato né avviato minimamente il passaggio generazionale pur avendone necessità. Questa è l’ennesima conferma del fatto che forse negli ultimi anni si è dedicato fin troppo tempo a fare discorsi di fioretto economici, finanziari, tecnico-giuridici sul tema del passaggio generazionale ed è stato poco compreso quanto sia un percorso anche relazionale e di coscienza che deve intraprendere in primis l’imprenditore.

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