Ultimamente si leggono sempre più articoli in cui si vedono gli estremi di scontri che avvengono tra imprenditori che si lamentano per non riuscire a trovare giovani che accettino di fare certi lavori e, viceversa, giovani che vengono pagati troppo poco per le attività, le mansioni e gli orari a cui devono sottostare.
Non voglio entrare nell’agone politico suggerendo quali potrebbero essere alcuni incentivi da adottare per favorire la relazione tra queste due parti. Però, in quanto professore di negoziazione, ci tengo a esplicitare alcuni elementi negoziali che possono indicare la via verso la risoluzione di questo conflitto. Il mondo del lavoro, infatti, è un grande tavolo negoziale, in cui – in fondo – avviene l’essenza di una negoziazione, ovvero uno scambio di valori percepiti disuguali. Lo scambio base classico è: il datore di lavoro paga uno stipendio in cambio del tempo che il suo dipendente dedica al lavoro.
È normale che in un mondo che corre sempre più veloce, le interazioni tra chi dà lavoro e chi riceve lavoro siano molte più che in passato, dove magari chi iniziava a lavorare in azienda rimaneva nella stessa fino alla pensione. Attualmente, invece, si vedono persone che cambiano lavoro in corso d’opera, licenziando o assumendo nuove persone e in questo senso esempi sono le aziende che stanno operando licenziamenti nell’ultimo periodo o, al contrario, assumendo centinaia di persone. Dall’altra parte, ci sono i giovani o meno giovani che decidono di scegliere se accettare o meno un lavoro. Nella sua parte fisiologica, questo scambio è normale.
Gli elementi essenziali da avere in mente prima di una negoziazione sono due. Il primo corrisponde agli interessi, ovvero all’obiettivo finale che si vuole ottenere accettando o meno il lavoro. L’interesse, come sappiamo, non corrisponde alla posizione: se voglio far carriera e accreditarmi in un certo mercato, posso accettare un lavoro meno rispondente a ciò che cercavo pur di entrare nell’azienda dei miei sogni oppure lavorare per un brand che un domani mi rivenderò.
Il secondo elemento è la MAAN, la migliore alternativa alla negoziazione. Quindi, ci si deve chiedere: quali sono le alternative che ho sul tavolo? Reputo corretto per un giovane rifiutare uno stage in cui verrebbe pagato 500 euro al mese nel momento in cui, a parità di condizioni, ne ha un altro sul tavolo in cui lo stipendio sarebbe di 700 euro mensili. E reputo altrettanto giusto per un imprenditore assumere uno stagista a 500 euro nel momento in cui ha davanti a sé una persona valida 500 e un altro a 800 euro se vale tanto, poiché è la dinamica di mercato.
Ciò che sfugge – tanto agli imprenditori quanto ai giovani lavoratori – è un elemento meno conosciuto, ovvero la PAAN, la peggiore alternativa alla negoziazione. La PAAN attiene a cosa succede nel caso in cui non si trovi un accordo. Cosa succede a un imprenditore che attacca i giovani lavoratori estremizzando anche verbalmente il conflitto tra due parti diverse? Che farà fatica a trovare persone felici di lavorare con lui e, quindi, perderà occasioni di business. Quando si assume, infatti, lo si fa come investimento innanzitutto per un proprio tornaconto. Accrescere i conflitti vuol dire fare più difficoltà a trovare persone e un domani perdere business in favore dei concorrenti.
Qual è, invece, la PAAN di chi decide di non iniziare a svolgere un lavoro “semplice” e anche non ben pagato? Che continuerà a rimanere fuori dal mercato del lavoro e, quindi, per assurdo troverà sempre più difficilmente l’occasione di entrare con un compenso che fin dall’inizio corrisponderà a quanto vorrebbe.
Vi invito, perciò, a ricordare che la valorizzazione delle relazioni si ottiene per tutte le parti in campo nel momento in cui si favorisce il raggiungimento di un accordo. È meglio far trovare accordi, magari non ottimali all’inizio, e aggiustarli strada facendo che non trovare accordi, aumentando così la tensione in campo per poi essere vittima della propria peggiore PAAN.
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