Cosa fa sì che i leader, a un certo punto, si fermino e in un mondo che corre velocemente rimangano conseguentemente indietro? Il più grande nemico di un leader è l’ego che porta a sentirsi arrivati. In realtà, per quanto riguarda il tema dell’ego, bisogna distribuire le responsabilità. Se, infatti, da un lato, dopo una serie di successi è normale e comprensibile che una persona tenda a “sedersi sugli allori” e, quindi, che gran parte della responsabilità sta in capo a lui, dall’altro spesso questa tendenza a richiudersi nella propria comfort zone è favorita, addirittura in certi casi facilitata, dai cosiddetti cerchi magici e dagli staff che stanno attorno ai leader.
Recentemente mi è capitato di essere chiamato dall’HR Director di un’azienda che mi ha chiesto di proporre al suo Presidente di affrontare un percorso One to One per supportarlo sia su dinamiche riorganizzative, in quanto stavano sviluppando un percorso di Change Management importante, sia dal punto di vista delle relazioni istituzionali con diversi enti e organizzazioni con cui la loro azienda avrebbe avuto sempre più a che fare nel tempo. Ciò che mi ha colpito è che, sebbene lui avesse piena coscienza di questa necessità, non aveva detto nulla alla proprietà perché temeva di risultare scortese e offensivo e perdere il posto di lavoro.
Questa dinamica l’ho vista più evidente nel momento in cui sono stato contattato da un politico, il quale era circondato da uno staff composto da dieci persone che sapeva che in pubblico non performava al meglio come nel privato, essendo lui una persona mite e di contenuti. Nonostante questo, i componenti del suo staff si vergognavano anche solo all’idea di presentargli una proposta per seguire un corso di formazione sul public speaking e sulla Comunicazione Strategica. Come spesso accade, la questione è poi stata risolta da un professionista nonché amico del politico, che, non avendo conflitti di interesse e volendogli veramente bene, in privato gli ha presentato un progetto formativo.
Con grande sorpresa, il politico ha accettato con entusiasmo, perché – questa è la lezione che ha dato a tutto il suo staff – riteneva che la ragione più nobile per formarsi sul public speaking non fosse imparare a parlare in pubblico per imparare tecniche manipolatorie e vincere un dibattito, ma dare ancora più forma e valore alla sostanza delle sue idee. Credendo lui fino in fondo negli ideali, nei valori, nelle idee e nei progetti creati con il suo team, si è impegnato per trovare una forma migliore per esprimersi ed esprimerli per far sì che i cittadini avrebbero potuto apprendere ciò che lui aveva da proporre.
La cosa buffa è che dopo questo training appassionante, lo stesso politico ha chiesto di organizzare degli incontri di formazione in piccoli team con tutto il suo staff in modo tale che anche loro sui diversi aspetti e ambiti delle soft skills potessero essere formati e imparare ad ascoltare, gestire i nodi dei conflitti, ecc.
Oltre alle storie positive che ho raccontato in questo articolo, ce ne sono altre in cui progetti di formazione One to one o semplici supporti organizzati non siano partiti perché tutti hanno negato la necessità di seguirli, non comprendendo che la formazione è un elemento che porta gioia e valore non solo a chi la fa, ma anche a tutte le persone che sono intorno. Quindi, chi si forma non va stigmatizzato come un debole, ma identificato come un leader che vuole esserlo ancora di più.
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