Quando pensiamo alla parola negoziatore, a tutti noi vengono in mente probabilmente testi di autori americani; basti pensare al famoso libro L’arte del negoziato di Roger Fisher, William Ury e Bruce Patton, o al film The Negotiator, in cui sono presenti negoziatori, ancora una volta americani, tra cui Samuel L. Jackson.
È bene sapere che quel tipo di negoziatore non è l’unico, in quanto ci sono diversi approcci alla negoziazione tante quante sono le culture; quindi, ci sono negoziatori arabi, russi, cinesi, giapponesi e di stampo italiano. Per far capire quanto questo pregiudizio sia presente e limiti le capacità di diventare buoni negoziatori parto dal racconto di un aneddoto.
Qualche tempo fa, in Accademia è venuto a trovarmi un cliente portando con sé un amico imprenditore, che chiameremo Roberto. Non appena mi ha visto, Roberto ha detto: «Quando Giovanni mi ha detto che avrebbe voluto presentarmi un professore di negoziazione, ho subito pensato che volesse presentarmi un americano, avendo la sua azienda molti contatti con gli Stati Uniti, e sono rimasto sorpreso nello scoprire che sei italiano. Avendo letto il tuo libro, Il negoziatore. Strategie Vincenti, ho accettato l’incontro perché ho capito che anche gli italiani hanno qualcosa da dire in campo negoziale».
Mi ha fatto poi una domanda, chiedendomi: «Cosa cambia tra l’approccio americano e quello italiano?». Io ho risposto: «Se un certo tipo di approccio negoziale è stato inventato nel mondo dagli americani, basti pensare alla scuola di Harvard, il cui esponente è Fisher, e a quella di Yale con Nalebuff, è anche vero che le scuole americane scontano due grandi difetti che l’Accademia di Comunicazione Strategica, nota e prestigiosa società di consulenza in questo campo, tenta di superare, quello data driven estremamente razionale in certi casi e, addirittura, logico-matematico in altri».
Cosa intendo? Che l’approccio americano è di tipo business to business con grande valorizzazione di numeri. Tuttavia, essendo nate decenni fa, le due scuole americane non hanno saputo integrare due importanti componenti legate al perché le persone prendono decisioni. La prima è la componente emotiva che corrisponde al riconoscimento e alla valorizzazione delle emozioni. Noi siamo soggetti che decidono con la pancia e riconfermano la decisione con la testa.
Il secondo elemento, ancora più nuovo anche se di bias si parla da vent’anni, più nuovo, è la componente inconscia, legata agli errori della mente, siano essi causati da bias o noise, come racconto nel libro che ho scritto con Laura Mondino, Gli errori della mente. Strumenti di comunicazione strategica.
Quello che notiamo è che se non c’è la valorizzazione anche di questi due elementi, avere sulla carta in teoria un possibile accordo che produca valore per entrambe le parti fa sì che queste parti non lo firmino. Quante volte, infatti, ci siamo resi conto di aver fatto decisioni errate perché prese troppo velocemente – classico errore da bias – o aver fatto prevalere l’orgoglio ed essere stati ego-riferiti e, quindi, non aver concluso buoni affari?
L’Italia, da una parte, ha la capacità di valorizzare come impostazione culturale ciò che gli altri hanno codificato e decodificato, ma ha anche la capacità di portare un approccio umano relazionale fondamentale. Ad esempio, nelle dinamiche di vendita non è importante sempre e solo vincere il primo incontro, come magari porterebbe a pensare l’approccio americano di taglio distributivo, perché se si trova un equilibrio e una buona dinamica di relazione, si avvera il detto «I soldi di fanno sui clienti che tornano», e questo passa sempre e soltanto per la valorizzazione anche degli aspetti umani, su cui la cultura italiana, come anche altre, ha da insegnare a tutti, in primis agli americani.
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