Chi guida un’azienda, spesso si trova di fronte alla grande tematica se essere ottimista o negativista. Recentemente sono stato invitato a parlare al leadership team di una nota azienda che mi ha proposto come argomento proprio questa doppia via.
L’azienda si trova di fronte a un 2024 che sarà particolarmente sfidante e, quindi, i dirigenti volevano sapere, dopo aver scelto la strategia e attraverso anche un dialogo con me, che parole e stile usare e verso quale delle due parti andare. Durante il confronto sono emersi dei punti che penso possano essere utili a tutti, non solo a bordo di una grande azienda, ma anche a tutti coloro che guidano medie e piccole realtà, siano esse profit o no-profit.
Il primo aspetto che abbiamo evidenziato assieme è che, tra l’essere ottimista e l’essere negativista, i cinici credono che la scelta migliore sia la seconda, in quanto – in fondo – non si può mai sbagliare: se uno pensa che accadrà qualcosa di negativo e quella cosa accade, sarà già mentalmente preparato; viceversa, se pensa che accadrà qualcosa di negativo e accadrà qualcosa di ottimo, sarà sicuramente sollevato dalla buona notizia.
La verità, però, è che chi è ottimista trasmette, dal punto di vista della comunicazione, una carica emotiva più forte, andando a incoraggiare gli altri a “giocare d’attacco”. Questo spesso è un elemento che fa la differenza, soprattutto nelle aziende che hanno di fronte un anno sfidante: tante piccole performance migliori da parte di ciascuno dell’azienda potrebbero essere l’ago della bilancia, la differenza tra il continuare la cavalcata verso il successo oppure l’avere una perdita.
L’altro elemento emerso è che il vero cambiamento di forma mentis e di azione passa attraverso un cambio di parole. Se la parola ottimista a tanti non piace in quanto è – di fatto – un “sotto prodotto” di una cultura americana in cui l’Io (ego) si gonfia in maniera ipertrofica dicendo “ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare” ed è tutto incentrato su di sé, c’è un altro termine che invece apre a una visione più vera, più strategica, più interessante: la parola realismo.
Occorre quindi osservare la realtà e interrogarla, approfondirla, cercando di capire quali sono i segnali, i dati più importanti per poi costruire la strategia con uno sguardo – e qui introduciamo un altro importante termine – positivo.
La caratteristica interessante del termine “positivo” è che deriva dal latino “positum“, che significa “che viene posto“; quindi, “che c’è”. Bisogna interrogare la realtà tenendo conto che i suoi elementi sono da valutare e che, per il loro stesso esserci, sono elementi di valore. L’aggettivo positivo, dunque, non sta a indicare una notizia ottimale o una cosa bella; si riferisce a un elemento che c’è, è un dato della realtà che vale la pena guardare e osservare per poterlo gestire al meglio.
Ecco, quindi, che il lavoro con questo leadership team, compreso il general manager dell’azienda, è proseguito andando paradossalmente a ritroso prima di andare avanti. Si sono guardati con ottica diversa i dati del 2024, si sono guardati in maniera positiva gli elementi essenziali e, cosa che accade spesso quando si osserva la realtà, sapendo che ogni elemento è essenziale, si è scoperto che vi sono tanti elementi che prima erano stati trascurati.
Questa seconda analisi ha portato a una valorizzazione di più elementi che hanno permesso di dare avvio alla costruzione di una comunicazione – per fine 2023 rispetto al piano strategico del 2024 – più positiva, più incentrata su elementi reali e non immaginati o viziati da un “Io” ipertrofico, depresso o cinico.
Nella dialettica ottimista o negativista io preferisco, dunque, l’approccio realista e con sguardo positivo alla realtà.
L’ultimo termine che un domani mi piacerebbe approfondire con voi, anche se in quel caso, da un certo punto di vista era fuori luogo, è il termine “speranza”. Tant’è vero che io non mi sento un ottimista (né tanto meno un cinico), mi sento una persona positiva che osserva con curiosità e un’ipotesi buona sulla realtà e, infine, mi sento un uomo che ha speranza. La speranza, quindi, è per certi aspetti, opposta all’ottimismo: se l’ottimista è colui che pensa di salvarsi grazie ai suoi sforzi, colui che ha speranza sa che si salverà grazie all’intervento di un altro; questo non fa venir meno nessun elemento di impegno personale perché, come dice un detto della saggezza popolare, “aiutati che Dio ti aiuta”.
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