Il nome di Mario Draghi è risuonato molto in Europa nelle ultime cento ore, alla vigilia del Consiglio straordinario Ue di ieri sera su Ucraina e riarmo, conclusosi in termini interlocutori. Draghi è stato evocato da Emmanuel Macron – lunedì scorso, in un’intervista italiana al Foglio – prima di annunciare ai francesi il perentorio appoggio al piano ReArm, svelato martedì da Ursula von der Leyen.
Lo stesso piano di riarmo europeo è parso apertamente ricalcato sul Rapporto Draghi, commissionato un anno fa all’ex presidente della Bce dalla presidente della commissione Ue a caccia della riconferma. Qualche sorpresa ha invece suscitato la citazione del mantra draghiano “whatever it takes” da parte del cancelliere tedesco in pectore Friedrich Merz, al suo primo passo rilevante dopo il voto in Germania. Si è trattato del preannuncio congiunto di Cdu-Csu e Spd – quasi un preambolo al programma del futuro governo di coalizione a Berlino – di un fondo straordinario in deroga ai vincoli costituzionali di bilancio e principalmente finalizzato a investimenti militari. Spese che secondo Merz potrebbero essere scorporate senza problemi anche dalla griglia dei parametri economico-finanziari Ue.
Tre indizi non fanno mai una prova, neppure se a seminarli sono voci del calibro di Macron, Merz e von der Leyen. Sembra comunque più di una suggestione ipotizzare che l’ex premier italiano sia l’identikit “super-commissariale” cui l’Europa franco-tedesca e la sua sponda britannica stanno guardando per la gestione del piano ReArm e dell’intera strategia in Ucraina, che si profilano di enorme impegno. Tanto che ieri sera il Consiglio si è limitato a dare a ReArm un via libera preliminare (scontato: in caso contrario sarebbe entrata subito in crisi la poltrona di von der Leyen).
Non è mancato tuttavia l’importante veto dell’Ungheria (al momento vincolante) su una possibile euro-missione militare europea in Ucraina. La premier italiana Giorgia Meloni, a quanto si è appreso, si è detta dal canto suo contraria al dirottamento su ReArm dei fondi di coesione: no quindi a colpi di mano sul bilancio Ue o ad esenzioni “ad hoc” dai parametri di stabilità finanziaria (sono stati sospesi una sola volta: durante il Covid, a termine, integralmente per tutti i 27, poi tutti interessati dal Recovery Plan).
Sul piano geostrategico, il nuovo “Defence Compact” europeo farebbe perno sugli arsenali nucleari di Francia e Gran Bretagna (quest’ultima al momento fuori dalla Ue): nella premessa, postulata domenica scorsa al summit di Londra, che gli Usa del nuovo presidente Donald Trump vogliano davvero disimpegnarsi dalla Nato e ridiscutere l’“ombrello nucleare” Usa sull’Europa.
L’adesione a un sistema di euro-difesa anglo-francese – ancora tutto da costruire e collaudare – fisserebbe quindi un nuovo “parametro militare” per l’appartenenza piena alla casa europea. Questa uscirebbe ristrutturata in una Unione a perimetro flessibile (Gran Bretagna, Norvegia e Turchia sono oggi fuori Ue ma dentro la Nato) e velocità variabili (già oggi aderiscono all’eurozona solo 20 dei 27 Paesi Ue: non Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca ma neppure Paesi come Svezia e Danimarca).
Sembra comunque disegnarsi un quadro in cui Londra e Parigi si posizionerebbero come dominanti in quanto offerenti di un nucleare “dual”, militare e civile. Gli altri Paesi Ue – fra cui l’Italia – sembrano invece collocati fin d’ora in posizione di domanda di difesa (o energia) nucleare a pagamento fornita dai nuovi “ombrellai”.
Una domanda che sarebbe obbligata se per caso gli Usa di Trump decidessero di “spegnere” l’ombrello militar-nucleare sull’Europa. Scenario che appare però poco probabile, soprattutto per quella “portaerei nel Mediterraneo” che è da sempre l’Italia e perché è un fake che gli Usa vogliano un’Europa esterna alla loro sfera d’influenza (e difficilmente lo vorrebbero gli establishment finanziari europei).
Sul piano finanziario, gli 800 miliardi di euro stimati per la dotazione iniziale di ReArm sarebbero finanziati in misura strutturale “dal bilancio Ue”, ha detto von der Leyen. Ma è stato da subito evidente a tutti gli osservatori che l’eccezione dichiarata nel 2020 per il finanziamento comunitario a debito del Recovery Plan postCovid (circa 750 miliardi) diverrebbe ora la regola, in particolare con l’emissione strutturale di eurobond.
Colpisce certamente che un’apertura a tamburo battente sia giunta dal cancelliere tedesco in pectore, allievo mai finora rinnegato della scuola dei falchi della Cdu (gli stessi che hanno alimentato le perenne opposizione della Bundesbank nel consiglio Bce presieduto dall’espansionista Draghi). Ma l’esito elettorale in Germania, al di là degli entusiasmi mediatici, sta evidentemente facendo paura: combattere gli opposti estremismi di AfD e Linke (maggioritari nell’ex Germania Est) può giustificare la cancellazione di ogni “freno al debito” a Berlino e un improvviso favore verso l’indebitamento solidale Ue “fuori bilancio”. Per lo sdoganamento finale degli eurobond nessun nome parrebbe in ogni caso adatto come quello di Draghi: per l’Europa, per gli Usa, per la City londinese e i mercati globali.
È d’altronde sul piano politico-istituzionale che ReArm sembra porre sfide di livello estremo, anche per pesi massimi come Macron, Merz, Starmer, von der Leyen e Draghi. ReArm è stato concepito fuori Europa, in terra Brexiter. Von der Leyen a Lancaster House ha avuto un ruolo quasi segretariale rispetto a Macron e Starmer. Il summit ha in parte forzato la premessa opinabile che “l’Europa deve riarmarsi subito perché Trump vuole ritirarsi e non vuole proteggere l’Ucraina”.
Al tavolo c’erano comunque soltanto 11 Paesi Ue su 27. La vicepresidente della Commissione – l’ex premier estone Kaja Kallas, appena nominata alto commissario Ue per gli esteri e la sicurezza – non è stata neppure invitata. Un progetto di programmatica reazione a Trump e di impegno militare ostile alla Russia sulla frontiera ucraina è stato partorito da una coalizione di “volenterosi” (potenziali) poco sovrapponibile sia alla Ue sia alla Nato. Di qui uno scenario molto denso di incognite e di rischi.
Nel piano Macron-Starmer (frettolosamente stampigliato Rearm-Ue da von der Leyen) è leggibile il cantiere di un nuovo e indefinito contenitore geopolitico, aperto a tutti i cosiddetti “volenterosi”: a tutti coloro che fossero disposti ad aderirvi – anche il Canada dal Nord America – accettando nero su bianco regole e impegni di un nuovo patto/trattato.
L’ipotetica “sovrastruttura” pare fin d’ora inevitabilmente votata al superamento della Ue e della Nato attuali, evidentemente giudicate pletoriche e ingovernabili (la Ue è effettivamente vincolata dall’unanimità di voto in Consiglio, la Nato dalla dominanza Usa). Non certo banale, su questo versante, è stato per questo l’intento preannunciato da von der Leyen di rendere subito esecutivo “d’urgenza” ReArm, eventualmente senza esame e voto da parte dell’Europarlamento.
La Commissione si appellerebbe, con una scorciatoia in oggettivo odore di autoritarismo eurocratico, all’articolo 122 del Trattato di Maastricht. La stessa von der Leyen mediterebbe di bypassare il vaglio della democrazia parlamentare appena otto mesi dopo essere passata da Strasburgo per la fiducia a un nuovo mandato a Bruxelles. Fiducia che è è stata infine ottenuta con numeri risicati, faticosamente garantiti da popolari, socialdemocratici, liberali e verdi ma con molti franchi tiratori. Ad essi si è unito il grosso degli europarlamentari della destra conservatrice (non senza ambigue operazioni di depistaggio, finalizzate a sostenere von der Leyen) ed estrema, premiate ovunque sul continente dal voto popolare e oggetto costante di tentativi di “cordone sanitario” da parte delle forze autodefinite “europeiste”.
ReArm sembra ora profilarsi nei fatti come un’operazione di vasta destrutturazione della Ue, pilotata da pochissimi Paesi big, malcelati dietro la presidenza della Commissione. E pare evidente che la nuova “Europa militare”– sostenuta da Germania, Francia e Gran Bretagna – si proponga da subito come un’“Europa 4.0” dopo Roma, Maastricht e Lisbona. Poco sembra contare che i leaders – Macron, Starmer e Merz-Scholz – siano tutt’altro che forti nei rispettivi Paesi, anzi: un’Europa tecnocratica e virtuale (in uno scenario più o meno artificiale di guerra con la Russia) appare come un sicuro porto “offshore” per tutte le leadership nazionali scricchiolanti o compromesse.
Di qui – in attesa di sviluppi probabilmente ancora non elaborati neppure dai protagonisti – la congettura che Rearm diventi da subito un singolare veicolo politico-finanziario. Per certi appare un modello clonato su quelli che prima del 2008 consentirono alle investment banks della City e di Wall Street di gestire la più aggressiva finanza derivata, scaricando i rischi sui risparmiatori ma occultandoli ad ogni trasparenza contabile, salvo trattenere il controllo sui flussi finanziari e i margini di profitto.
Non sarebbe obbligatorio che la Ue in quanto tale aderisse a ReArm: questo potrebbe essere adottato dai “volenterosi” in nuove strutture e nuove regole (affidate alla gestione separata o alla sorveglianza delegata di nuove figure nella governance Ue). Gli investimenti validi ai fini dei nuovi “parametri militari” – in prospettiva decisivi per una vera “cittadinanza europea” – potrebbero essere comunque esentati dal rispetto dei parametri economico-finanziari ordinari della Ue.
In concreto: Francia e Germania resterebbero dominanti a Bruxelles (von der Leyen è in carica fino al 2029) e sarebbero quindi nelle condizioni di manovrare a vantaggio proprio e degli altri “volenterosi” i parametri della “vecchia Ue”, riservandosi la massima severità nell’applicazione dei parametri ordinari ai “non volenterosi”.
In estrema sintesi, Macron pare proporsi come gestore egemone di 800 miliardi fra fondi di coesione Ue dirottati, risparmi e capitali raccolti “in Europa” (City compresa). Sarebbe l’Eliseo – assieme a Londra – ad avere ruolo centrale nello smistamento delle commesse per la nuova difesa europea. Queste andrebbero prevedibilmente a sostenere l’industria nei soli Paesi “volenterosi”, cui Bruxelles potrebbe sospendere “ad nationem” i parametri di stabilità finanziaria.
L’Europa “volenteriosa” – ma alla fine tutta – si ritroverebbe responsabile geopolitica “non allineata” della protezione dell’Ucraina, protraendo un stato di guerra (anche economica) con la Russia, che non coinvolgerebbe più alcun altro Paese del pianeta. Dovrebbe schierare un “esercito europeo” mai collaudato e comunque sotto la guida ferrea di generali francesi (i soli targati Ue) e inglesi. Trump avrebbe prevedibilmente buon gioco nel registrare atto che gli europei “fanno da soli”, fidandosi del solo ombrello nucleare anglo-francese, senza più bisogno delle forze Usa.
È il gioco tentato da Volodymyr Zelensky nello Studio Ovale sette giorni fa. Il presidente ucraino ha raccolto l’abbraccio e l’applauso del summit di Londra, ma ha poi fatto rapidamente marcia indietro. Non rinuncerà tuttavia alla passerella di un ennesimo vertice “europeo” già messo in agenda dal frenetico Macron per il 12 marzo.
PS: a rischio di dietrologia, non sembra inutile segnalare come Macron, Draghi e Merz vantino tutti solidi legami con la finanza americana. Il presidente francese si è fatto le ossa come banchiere d’affari in Lazard, l’ex premier italiano è stato partner di Goldman Sachs nell’intermezzo fra la direzione generale del Tesoro e il richiamo al vertice Bankitalia; il cancelliere tedesco entrante è stato capo della controllata tedesca di Blackrock, il più grande gestore globale di fondi con 130 miliardi di dollari di “potenza di fuoco”.
Tutte istituzioni storicamente in buoni rapporti – oltre Atlantico – più con il mondo dem che con quello repubblicano. Certamente, oggi, non alleate della Casa Bianca di Trump. Tutti capitani di una finanza tradizionale sempre più timorosa dello strapotere montante di Big Tech, compatto dietro Trump: anzitutto nel campo delle criptovalute.
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