Nessuno forse voleva che il Consiglio europeo fallisse, in fondo nemmeno il capo dei falchi, l’olandese Mark Rutte, ma quando gli interessi nazionali, legittimi anche se miopi, si sono trasformati in pregiudizi ideologici, è diventato più difficile trovare una soluzione razionale. Ieri sera il negoziato era ancora in stallo e non sappiamo, nel momento in cui scriviamo, se il compromesso escogitato nella notte tra venerdì e sabato da Angela Merkel, Emmanuel Macron e Giuseppe Conte diventerà accordo finale. Una cosa è certa: sarà difficile al capo del governo italiano tornare a casa e far ingoiare il rospo.
La proposta di mediazione prevede una limatura di 50 miliardi di euro alle sovvenzioni che scendono a 450 miliardi, mentre i prestiti salgono a 300 miliardi. Il Resilience Recovery Facility (che prevede allocazioni dirette) viene in compenso aumentato da 310 a 325 miliardi. La Commissione avrà un ruolo rafforzato, tuttavia uno Stato membro può attivare un “freno di emergenza” entro tre giorni, portando la questione al Consiglio europeo, o all’Ecofin, per “affrontare in maniera soddisfacente” la sua preoccupazione riguardo all’impiego dei fondi da parte di uno o più membri dell’Ue. Anche la percentuale delle somme da spendere viene sforbiciata: non più il 70% nel primo anno e il 30% in quelli successivi solo se il Pil continua a scendere, bensì il 60% e il 40%. Quanto ai rebates, cioè i rimborsi per i Paesi frugali, riducendo così il loro contributo al bilancio, diventano 100 miliardi di euro da dividere in 25 miliardi alla Svezia, 25 miliardi alla Danimarca e 50 all’Austria. Nulla all’Olanda, né alla Germania.
È toccato al presidente del Consiglio europeo Charles Michel di sondare le parti. Secondo Rutte, “la direzione è giusta”, anche se ha tenuto duro fino all’ultimo. Il trucco sta nel “freno di emergenza”, una sorta di veto ex post lasciato nelle mani di ogni singolo Paese, ma che oggi come oggi potrà essere azionato dall’Olanda e mette i Paesi più deboli, a cominciare dall’Italia, sotto una continua spada di Damocle. Se è giusto preoccuparsi che i soldi comuni vengano spesi bene, è assurdo agire come se l’Unione Europea non stesse ancora sotto la falce del coronavirus e nel bel mezzo della peggiore recessione dell’ultimo secolo. L’improvvisa esplosione dei contagi in Spagna, i nuovi focolai che si sono accesi in Italia, la difficile situazione in cui si trova ancora la Svezia, dimostrano a chi lo avesse dimenticato che l’emergenza è tutt’altro che finita.
Un fondo per la ripresa sforbiciato e messo sotto tutela non è esattamente un successo pieno per l’Italia e non sarà sufficiente ad accontentare l’opposizione, nemmeno Forza Italia. Ma soprattutto diventa una doccia fredda sugli ardori europeisti del Pd. E con questi chiari di luna, sarà impossibile far digerire al Movimento 5 Stelle il ricorso al Meccanismo europeo di stabilità (Mes). In pratica, i quattrini arriveranno l’anno prossimo e di qui ad allora si apre per il Governo italiano un buco finanziario difficile da riempire. Con un debito pubblico che ha superato i 2.500 miliardi di euro ed è destinato a crescere, s’affievoliscono le speranze che siano i singoli risparmiatori italiani a fornire le ciambelle di salvataggio. Ci vorrà tutta la fantasia del Tesoro per inventarsi nuovi Btp, ma alla fine della fiera sarà la Bce a tenerci a galla. Si ripresenta così l’idea di un prestito forzoso, pendant finanziario dell’imposta patrimoniale.
Di qui alle elezioni di settembre, la destra cavalcherà “l’egoismo dell’Europa”, tra i 5 Stelle crescerà il mal di pancia e Luigi Di Maio, che coltiva l’ambizione di sostituire Conte, accentuerà la fronda, mentre il Pd faticherà a smaltire la sua delusione. Zingaretti ha puntato tutte le carte sul deus ex machina europeo, ma da Bruxelles non arriva nessun colpo di bacchetta magica. Gli europeisti guarderanno al bicchiere mezzo pieno perché per la prima volta l’Ue va sul mercato come soggetto unitario, mutualizzando una parte del nuovo debito. Da questo punto di vista si tratta di un passo avanti nella direzione che piace ad Angela Merkel e ai federalisti. Tutto vero, anche se le resistenze mostrate da Paesi fondatori come l’Olanda vanno al di là del tradizionale mercanteggiamento dei vertici europei: mostrano infatti una impostazione culturale e politica che rende precaria la stessa direzione di marcia.
L’Unione cammina ancora su un ponte tibetano sospeso sull’abisso. E l’Italia dovrà rimboccarsi le maniche, cercando al suo interno le idee, le proposte e le risorse per colmare il gap e affrontare un autunno che si presenta rovente.