Il Financial Times, alla vigilia del nuovo Consiglio Ue, ci dice finalmente su che cosa si stanno arrovellando nella Commissione europea. L’obiettivo è il Rearm Europe, ma tra il dire e il fare, si sa, c’è un “come” tutto da immaginare. In realtà un’idea c’è. Un nuovo trattato? Macché. Meglio – spiega l’FT – “istituire un Meccanismo di acquisto collettivo di armi per l’intera Unione, che rappresenterebbe un significativo trasferimento di potere a Bruxelles”. Proprio così: un “European Military Sales Mechanism” (EMSM), che prevederebbe un mercato europeo di armamenti con “approvvigionamento congiunto” e “acquirente centralizzato”.
Ma ancora una volta l’Unione Europea non fa i conti con i suoi limiti, e neppure, probabilmente, con la pazienza dei suoi cittadini, nonostante la potenza delle grandi visioni, come quella di Altiero Spinelli e del Manifesto di Ventotene.
Ne abbiamo parlato con Agustín Menendez, docente di diritto pubblico comparato e filosofia politica nell’Università Complutense di Madrid.
Professore, le ricorda qualcosa questo termine, EMSM?
È l’European Military Sales Mechanism, che da spagnolo che ha sofferto l’austerity associo subito al Meccanismo europeo di stabilità (MES) di infausta memoria. Lo strumento finanziario necessario per trovare i soldi viene denominato Security Action for Europe, con l’orwelliano acronimo SAFE, che implica certamente un gioco di parole con il SURE della pandemia.
La difesa finora è stata competenza degli Stati. L’Europa, con i suoi “meccanismi”, può sostituirli?
Diciamoci pure la verità. La difesa europea è formalmente una competenza nazionale, ma materialmente è sempre stata nelle mani della NATO, con l’unica eccezione – solo parziale – della Francia di de Gaulle. E la NATO funzionava, nel bene e nel male, perché gli Stati Uniti giocavano il ruolo di coordinatori come potenza egemone o imperiale, scelga lei la parola che preferisce. Fare una vera Europa della Difesa vorrebbe dire farlo senza gli americani. Ma per questo occorrerebbe trovare un ricambio “interno” al principe straniero.
Cosa significa?
Vuol dire che andrebbero create strutture istituzionali e processi decisionali tali da permettere di agire in modo solidamente unitario. L’unica struttura creata a tale fine, l’Unione Europea Occidentale (UEO), da non confondere con l’attuale UE, è servita fondamentalmente a pagare le pensioni dei suoi funzionari.
E il progetto della Comunità Europea di Difesa?
Il progetto della CED, in origine francese, era stato fortemente voluto degli americani per semplificare la loro funzione imperiale. Niente “sovranità strategica”, come si dice adesso. È questo il vero motivo per cui De Gaulle si è opposto con successo, nel 1954, alla ratifica del trattato che avrebbe creato la CED e, con essa, una Comunità politica. Successivamente lo stesso de Gaulle provò, senza risultato, a creare un’unione militare e politica europea, a trazione genuinamente europea. Un altro fallimento.
E se le élites europee riuscissero a trovare il modo di superare questi ostacoli e ad esprimere una visione europea e un modello effettivo di implementazione della difesa?
Ipotizziamolo pure. Visto che siamo ancora Paesi democratici, siamo proprio sicuri che questa europeizzazione della difesa sarebbe un progetto entusiasmante per i cittadini?
Cosa pensa delle modalità previste per finanziare l’aumento della spesa militare?
La proposta “tecnica” fatta oggi dalla Commissione prevede la sospensione del Patto di stabilità per quattro anni e un aumento del tetto alla spesa militare di 1,5 punti di Pil per Paese. Con “orizzonte 2030”. Ma il governo tedesco ha fatto già capire che trova “poco ambiziosi” tali obiettivi. Cosa penseranno, dopo 2-3 anni, i cittadini di questa bella prospettiva di una guerra eterna?
“Joint procurement” e “centralized buyer”, approvvigionamento congiunto e acquirente centralizzato. Cosa ci dicono queste espressioni, che sembrano rispecchiare perfettamente il modello di governance dell’Unione?
Tutto lascia pensare che si stia creando una mega-macchina destinata a diventare un super-Stato europeo. L’Europa avrebbe la fisionomia embrionale di uno Stato, con la sua banca centrale, la sua polizia (Frontex) e, prima o poi, un suo sistema tributario. Non c’è bisogno d’essere troppo weberiani per tirare le somme.
In altri termini, vuole dire che ci aspetta un sistema totalitario?
Weber direbbe semplicemente che quello sarebbe uno Stato. Se crediamo nella democrazia, allora dovremo chiedere che quello Stato sia formato e governato democraticamente. Lascio ai lettori decidere quali siano le prospettive di democrazia in un sistema istituzionale mantenuto uno stato di eccezione permanente “necessario” a “riarmarsi”. Militarismo non rima con democrazia. Non si può dire, per esempio, che la guerra contro il terrorismo, “global war on terrorism”, abbia giovato al sistema politico USA.
Non le ho chiesto se questo “esperimento” sarebbe destinato a riuscire.
Non mi sembra un tentativo molto serio. I 150 miliardi europei impallidiscono davanti alle somme che Bruxelles permette agli Stati di spendere oggi. Sarebbe un modo molto strano di procedere, se veramente si volesse costruire la difesa europea. Come ha sottolineato recentemente Wolfgang Streeck, siamo davanti al ritorno in grande stile della logica intergovernativa, che per di più rischia di fare a pezzi il mitico levelled playing field (le condizioni di parità, nda) del mercato unico.
Un mercato in cui alcuni Paesi sono più uguali degli altri perché dettano le regole. Viene da pensare alla Germania.
Certo. Saranno i tedeschi a spendere di più, e saranno le ditte tedesche a diventare iper-competitive. Lo ha dovuto ammettere martedì in audizione Mario Draghi a domanda di Alberto Bagnai: la competitività non ci ha fatto più ricchi, ma più poveri. È un bene che Draghi scopra che quella non era la strada; ma perché adesso dovremmo affidarci a lui, visto che prima ha sbagliato?
Secondo lei che cosa succederà oggi e domani in Consiglio europeo? I governi diranno sì al riarmo e al meccanismo necessario per realizzarlo?
Cosa potrà succedere non è chiaro, visto che alcuni governi, come quello olandese, hanno ricevuto da loro parlamenti un mandato nettamente contrario al programma Rearm. Ovviamente il pressing tedesco è fortissimo e non dovremmo stupirci se l’esito fosse positivo. La mia sensazione è che questa storia del riarmo dimostri come la dirigenza europea abbia sviluppato una dipendenza dalle emergenze. In questo caso, per di più, l’emergenza si sta presentando come questione di “difesa e sicurezza” finalizzata a ristrutturare l’assetto industriale europeo, in primis tedesco.
Ci dia una prova della cattiva coscienza.
Se le priorità fossero davvero la difesa e la sicurezza, staremmo a discutere di come mettere fine alla dipendenza tecnologica strutturale dagli Stati Uniti. Ne dovremmo essere pienamente consapevoli, almeno dalle rivelazioni di Edward Snowden in poi.
Ieri alla Camera la presidente del Consiglio, nel dibattito dedicato alla risoluzione sul Rearm, ha detto che quella del Manifesto di Ventotene non è la sua Europa. La sinistra è insorta. Non crede che sia il caso di abbandonare quell’Europa utopica?
Il problema è che il Manifesto di Ventotene, come tanti testi che divengono “canonici”, è molto più citato che letto. E quando viene letto, di solito non si fa lo sforzo né di contestualizzarlo né di leggerlo sistematicamente, e questo vale sia per gli “europeisti” che per i “sovranisti”. Il socialismo come fattore di trasformazione della proprietà privata che scandalizza la presidente del Consiglio era nell’aria nel dopoguerra, infatti ha ispirato l’articolo 3 comma 2 della Costituzione italiana, il vero cuore della “Costituzione più bella del mondo”. Un testo contemporaneo, il Codice di Camaldoli, si proponeva di superare il collettivismo ma anche il liberismo. Se Spinelli era un socialista ex comunista, Rossi era un liberale, ed entrambi avevano letto e riletto Luigi Einaudi, che non mi sembra sia possibile definire come filo-sovietico. Ma queste sfumature vengono a meno quando si scrivono discorsi senza una vera ricerca, improntati per lo più agli articoli di giornale.
Ma il Manifesto è o no un lontano, lontanissimo parente del Rearm Europe?
La risposta netta è: molto poco, se non pochissimo. Il progetto europeo di Spinelli e Rossi, con tutti i suoi difetti, portava con sé un modello di trasformazione orientato alla giustizia sociale. Il modello che propongono Draghi e von der Leyen è una nuova variante emergenziale del trasformismo: cambiare tutto per non cambiare nulla.
Le cito una frase di Spinelli dal Diario Europeo (1948-1969): “Per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono”. Sembra un’orrenda profezia.
Nel 1989, poco dopo la scomparsa di Spinelli, un federalista di vecchia data, Andrea Chiti-Batelli, pubblicò L’idea dell’Europa nel pensiero di Altiero Spinelli. Invece di un’agiografia, Chiti-Batelli offre al lettore una ricostruzione molto intelligente dell’azione politica e del pensiero di Spinelli. Il libro ci aiuta a fare quello che non si è fatto in Italia e non si sta facendo certamente in questi giorni, cioè individuare cosa ci sia di vivo e cosa invece sia da scartare nell’opera di Spinelli.
Lei cosa dice?
Non è condivisibile la facilità con la quale Spinelli passa da una visione neo-machiavelliana della leadership al fervore quasi leninista per le avanguardie rivoluzionarie. Mi permetta di aggiungere il contesto di questa citazione.
Prego.
Il passaggio fa parte delle riflessioni di Spinelli dopo la morte di Stalin, redatte in aereo fra Parigi e Roma il 12 aprile 1953. Quindi sono fatte a caldo, non destinate al dibattito pubblico. Aggiungo: non soltanto non sono condivisibili, ma mostrano fino a che punto una visione delle relazioni internazionali sia chiaramente inadeguata se ciecamente “realista”.
Ci faccia allora un esempio di ciò che è vivo in Spinelli.
Fra le tante cose, proporrei al lettore i suoi saggi Tedeschi al Bivio e La Germania problema europeo. Ci fanno capire che Spinelli sarebbe potuto diventare uno storico di razza, capace di offrire una chiave di lettura molto interessante della storia tedesca.
Lei dice che il Manifesto c’entra poco, se non pochissimo, con il Rearm. Ma nel Manifesto i vecchi Stati-nazione europei sono trattati come “quasi Stati”, utili solo per “articolare in forma residuale lo sviluppo della vita politica”. Materia ideale da plasmare per l’ordoliberalismo tedesco. O no?
Non sarei così sicuro. In primo luogo, l’ordoliberismo tedesco si è sempre caratterizzato per la difesa di forme, più o meno esplicite, di mercantilismo, che in fondo è una variante del nazionalismo. Infatti, l’entusiasmo “integrazionista” degli orodoliberisti non deriva da una visione politica federalista, ma dalla potenzialità del livello sovranazionale di agire come vincolo esterno. Per questo Erhard preferiva la globalizzazione alla europeizzazione e Röpke ha guardato sempre con sospetto al progetto europeo. Poi, teniamo sempre presente il contesto.
La guerra, immaginiamo.
Nel 1941 si stava combattendo la seconda grande guerra fra Stati europei nello spazio di due generazioni, e l’esperienza di tutti gli europei, salvo britannici, svedesi e svizzeri, era quella di essere cittadini di Stati incapaci di difendere minimamente i diritti dei loro cittadini. Come ricordava sempre Alan Milward, la prima fase dell’integrazione europea è stata fondamentale per “riscattare” la forma dello Stato-nazione e renderla legittima agli occhi dei cittadini.
(Federico Ferraù)
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